giovedì 11 febbraio 2021

Dovremo rimborsare la Ue fino al 2056

Di fronte a 672 miliardi è difficile storcere il naso. Sebbene dietro ci sia anche lo zampino di vicende nazionali, come quelle che hanno spinto la Lega a trasformare l’astensione in un sì, i numeri con cui il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato il Recovery fund sono schiaccianti: 582 voti favorevoli, 40 contrari e 69 astensioni. Per render operativo il nuovo strumento bisognerà aspettare che si completi anche il percorso legislativo del Next Generation Eu, che tiene tutti i fondi del prossimo settennato. Mancano le ratifiche dei parlamenti nazionali, che dovrebbero essere completate entro marzo. In tempo affinché entro il 30 aprile i piani nazionali di Recovery possano essere inviati a Bruxelles per la valutazione. Ma arrivati a questo punto, nessuno si aspetta sorprese. Del resto, con le economie continentali alla canna del gas i quattrini fanno comodo. Investimenti, riforme, infrastrutture, cantieri, innovazione. Per la destinazione dei fondi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Certo, la Ue metterà il becco su tutto, valuterà i piani, controllerà l’avanzamento della realizzazione, il raggiungimento degli obiettivi, l’efficienza degli interventi, però quando si tratta di spendere alla fine l’accordo si trova sempre.

Fare in fretta
E poi non c’è il tempo di fare i pignoli. «Bisogna fare presto perché la pandemia sta accelerando tutto» quindi «non è il momento di rallentare», ha detto la presidente della Bce Christine Lagarde, ricordando che «è nell’interesse dei Paesi muoversi velocemente, dall’Italia alla Spagna alla Grecia». 
Da noi sembrano tutti ansiosi di seguire il consiglio. Nella raffica di consultazioni che si sono tenute negli ultimi giorni, movimenti politici e parti sociali hanno sommerso Mario Draghi ogni tipo di richiesta, convinti che la mangiatoia questa volta sarà così ampia da garantire cibo per tutti.
La voglia di strafogarsi, insomma, non manca. Resta da capire come sarà la digestione. È già, perchè i soldi, malgrado quello che si continua a dire e credere, non sono affatto regalati. Una parte sono veri e propri prestiti, per cui c’è poco da discutere. Quanto agli altri, c’è poco da stare sereni. Le cosiddette sovvenzioni del Next Generation Eu (per l’Italia parliamo complessivamente di circa 81 miliardi) non sono in realtà finanziamenti a fondo perduto, ma anticipi prelevati dal bilancio Ue, che dovranno essere reintegrati. Nessuno sa con esattezza quale sarà il contributo in capo a ciascun Paese («una quantificazione precisa di tali oneri è di difficile quantificazione», ha detto di recente l’Ufficio parlamentare di bilancio), ma si sa con certezza quando. La partita, restituzione dei prestiti e reintegro delle sovvenzioni, dovrà essere chiusa al massimo entro il 2056.

Ora, è anche possibile che con quei soldi l’Italia si avvii su un percorso di crescita che ci permetterà di saldare il debito senza problemi ben prima della scadenza. Ma se le cose andranno diversamente, e ieri il governatore di Bankitalia ha fatto intendere che non è un’ipotesi così peregrina («Draghi non ha la bacchetta magica», ha detto Ignazio Visco), allora la festa di ieri per l’approvazione del Recovery da parte del Parlamento Ue potrebbe essere fuori luogo. Il contratto che ci apprestiamo a firmare con la ratifica del pacchetto completo, infatti, ci vincolerà all’Europa per i prossimi 35 anni. Un periodo che ricorda quello dei mutui immobiliari più lunghi. Solo che in quel caso finché si paga la rata, la banca non ficca il naso negli affari di chi li sottoscrive. Mentre Bruxelles avrà gioco facile nell’imporci le misure ritenute più adeguate per rientrare dal nostro debito. L’austerity che il Covid ci ha fatto dimenticare, rischia di diventare per i prossimi 25 anni la nostra inseparabile compagna di viaggio.

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