venerdì 23 marzo 2018

Lavoratori beffati nel nome dell'austerity. L'Inps si tiene 2 anni il Tfr degli statali

Ventisette mesi per ricevere la prima rata. E altri due anni per avere il saldo. Chi lavora per lo Stato e decide di utilizzare la liquidazione per togliersi un sfizio, per aiutare i figli, per fare un regalo ai nipoti o semplicemente, come sempre più spesso accade, per sopravvivere, avrà una brutta sorpresa. Le misure introdotte a partire dal 2012 per fronteggiare l’emergenza dei conti pubblici, che hanno dilazionato a dismisura il pagamento dei trattamenti di fine servizio, sono, infatti, ancora lì. E nessuno sembra intenzionato a cancellarle. Almeno con le buone.
Lo Stato non ha i soldi e non può più pagare le liquidazioni nei tempi previsti. È questo, in estrema sintesi, il motivo che ha spinto il governo Monti prima e quello Letta poi, a scippare la liquidazione agli statali.

Con un paio di colpi di penna la liquidazione del dovuto è passata da 3 mesi a 15 mesi per chi raggiunge i limiti di età o ha il contratto in scadenza e addirittura da 6 mesi a 27 per chi decide di dimettersi volontariamente. Che è il caso di tutti coloro che scelgono la pensione anticipata. Per avere il Tfr in tempi ragionevoli, ovvero 3 mesi, bisogna morire. Oppure restare invalidi. Gli unici motivi di cessazione del rapporto di lavoro per cui i termini sono rimasti identici al passato sono infatti quelli dell’inabilità o del decesso. Per tutti, invece, la soglia oltre la quale scatta la rateizzazione è passata da 90 a 50mila euro.
Una clamorosa truffa ai danni dei lavoratori? A prima vista non sembrano esserci troppi dubbi, ma per l’Inps è tutto in regola. Il cavillo con cui il governo ha potuto infilare le mani nelle tasche degli statali riguarda la particolare natura della liquidazione per i dipendenti pubblici. Per loro, infatti, il Tfr si chiama Tfs (trattamento di fine servizio) e non è una retribuzione differita ma, tecnicamente, un trattamento previdenziale. Invece di essere accantonati dall’azienda e poi rivalutati, come si fa nel privato, i soldi vengono versati sotto forma di contributi, sia a carico del datore sia a carico del lavoratore. Alla fine del rapporto un coefficiente moltiplicato per gli anni di servizio produce la somma da restituire al dipendente.

La sostanza cambia poco.Si tratta sempre di quattrini che, mese dopo mese, vanno a formare un montante. Con la differenza che gli statali, a differenza dei privati, sborsano anche dei soldi di tasca propria. Il problema è che le amministrazioni pubbliche, esattamente come accade con i contributi pensionistici, spesso non versano un bel niente nelle casse dell’Inps. E quando arriva il momento di pagare, i soldi non ci sono. Soprattutto se l’Europa ti chiede di sputare il sangue per far quadrare i conti.
Ed ecco il trucco sfruttato da Monti e Letta: trattandosi di materia previdenziale e non di retribuzione differita, nel nome della stabilità del sistema pensionistico e della tenuta della finanza pubblica le somme possono essere saldato anche con un po’ di ritardo. Un principio utilizzato anche per il blocco delle rivalutazioni e per il blocco dei contratti degli statali, su cui, però, si è abbattuta la scure della Consulta.
E sull’incostituzionalità della norma è pronto a scommettere Massimo Battaglia, segretario generale dellla Confsal-Unsa, che un anno fa ha avviato un ricorso al Tribunale del Lavoro di Roma che potrebbe portare fino alla Suprema Corte.
L’udienza decisiva è prevista per il 12 aprile e le sorprese non sono affatto escluse. Confsal-Unsa è, infatti, lo stesso sindacato che ha portato in tribunale il blocco dei contratti della Pa, costringendo la Consulta ad intervenire.

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