Qualcuno sostiene che a spingere per la norma che dal 2011 ha ridotto a 3 anni il tempo entro cui poter chiedere il ricalcolo della pensione fu proprio l’Inps, allora guidato da Antonio Mastrapasqua, ventilando al governo pericoli per la stabilità finanziaria dell’Istituto di previdenza. Un’ipotesi non confermata. Che trova, però, riscontro in una sentenza della Corte Costituzionale (la 69 del 2014, che ha salvato le pensioni già in fase di contenzioso) in cui si attribuisce all’ente la «difesa» di una legge «finalizzata a produrre risparmi nel settore previdenziale riducendo i tempi di esercizio del diritto degli assicurati alle prestazioni pensionistiche». In quest’ottica, scrivono i giudici della Consulta, secondo l’Inps l’intervento non solo «rientra nella discrezionalità del legislatore», ma «in linea di principio non è censurabile».
Il passaggio della sentenza, seppure eloquente, non esaurisce il senso della tagliola introdotta dall’articolo 38 del decreto legge del 6 luglio 2011 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria). La novità legislativa, infatti, non ha solo ridotto i termini concessi al pensionato per chiedere giustizia di eventuali errori dell’Inps, ma ha stabilito che dopo tre anni dal pagamento del primo assegno, giusto o no l’importo, il diritto alla contestazione decade, sparisce, non c’è più.
La norma è stata giustificata con la necessità di equiparare il termine per la decadenza a quello già in vigore per i ricorsi contro le domande di pensione respinte dall’Inps, che è sempre triennale. Ma se la logica è quella di ridurre il contenzioso, il confronto andrebbe fatto con le ampie possibilità concesse dalla legge all’Inps per la correzione e il recupero delle somme erroneamente accreditate in più al pensionato. Per quanto riguarda il diritto a ricalcolare l’assegno, questo resta sempre vivo. Finché la prestazione pensionistica viene erogata, l’ente può rendersi conto in qualsiasi momento di aver versato somme aggiuntive e sforbiciare di conseguenza il trattamento. Non solo. L’Istituto di previdenza in molti casi può anche chiedere indietro le somme indebitamente percepite. Il termine di prescrizione (e non di decadenza) in questo caso è di ben dieci anni. E il pensionato si salva solo se dimostra che non c’è stato dolo da parte sua, circostanza che impedirebbe all’Inps di chiedere indietro il denaro. La norma in questione è contenuta nell’articolo 13 della legge 412 del 1991, il quale stabilisce che solo «l’omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti su diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite».
Il che, stando a molti casi concreti, significa che per evitare un salasso futuro il lavoratore in quiescenza deve valutare autonomamente se la pensione ricevuta è congrua e corretta. La mancata segnalazione di un importo maggiore di quello spettante, se la cifra non è irrisoria, può infatti rappresentare una forma di «dolo» ai danni dell’Istituto.
La sostanza è che se l’errore è a vantaggio dell’Inps, dopo tre anni passa tutto in cavalleria. Nel caso contrario, il pensionato deve aspettarsi finché campa una letterina dell’Inps che gli chiede di restituire il maltolto degli ultimi dieci anni. «Per noi», ha detto il presidente Inas Cisl, Domenico Pesenti, «l’unica soluzione possibile risiede in una modifica normativa. Nessuno è però intervenuto e così si continua a perpetrare una vera e propria ingiustizia ai danni dei pensionati». Per fortuna, ha aggiunto Stefano Cetica, presidente Enas Ugl, «la Corte costituzionale ha almeno dichiarato illegittima la retroattività della decadenza per i giudizi pendenti in primo grado al 2011, che avrebbe reso il provvedimento ancora più iniquo»
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