Altro che muri, quote o linea dura con i clandestini. Gli immigrati vanno accolti a braccia aperte. Solo così Matteo Renzi potrà chiedere spazi aggiuntivi all’Europa per raschiare un altro po’ di deficit da mettere sul piatto della manovra. Il piano era chiaro da qualche giorno. Le promesse del premier, d’altra parte, si accavallano senza sosta. L’ultima è quella di anticipare il taglio dell’Ires annunciato per il 2017 con una sforbiciatina già a partire dal prossimo anno. Un solo punto percentuale di Ires in meno, oggi al 27,5%, vale però 1,2-1,3 miliardi. Se l’idea, dichiarata dallo stesso premier, è di scendere sotto la Spagna, che è al 25%, il conto è dunque salato.
Ed ecco la soluzione. Infilare nella trattativa con l’Europa sulla flessibilità anche i costi «eccezionali» spesi dall’Italia per fronteggiare l’emergenza immigrati. La conferma è arrivata ieri dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha portato la questione sul tavolo dell’Ecofin. «Nelle prossime settimane la Commissione Ue», ha spiegato al termine del summit a Lussemburgo, «darà agli Stati membri «indicazioni più precise su come valutare gli sforzi e gli impatti delle spese direttamente e indirettamente collegate alla crisi dell'immigrazione sui bilanci». E l’Italia, ha aggiunto Padoan, «ha espresso il suo interesse visto l’enorme ammontare di risorse che destina a questo scopo».
La speranza del governo è di ottenere uno spazio aggiuntivo di manovra sul deficit, perché sempre di questo stiamo parlando, dello 0,2%. Il che significa altri 3,3 miliardi da mettere nel calderone delle coperture. Al di là della valutazione sull’opportunità di finanziare mezza manovra in deficit, la questione è che anche se Renzi riuscisse a portare a casa tutto il bottino i conti non tornerebbero lo stesso.
La lista della spesa era già lunga prima che il premier la gonfiasse ulteriormente con gli ultimi annunci. Solo per sterilizzare le clausole di salvaguardia servono 16,8 miliardi. Altri 1,5 sono destinati al rinnovo dei contratti nel pubblico impiego, reso obbligatorio dalla sentenza della Consulta. E c’è sempre lo zampino della Corte costituzionale dietro i 700 milioni che serviranno per coprire la bocciatura della Robin Tax e i 500 milioni per la reindicizzazione delle pensioni. Intoccabili sono infine le spese indifferibili e il rifinanziamento delle missioni di pace, che valgono circa 2,7 miliardi.
A queste spese bisogna aggiungere quelle prodotte dal promessificio di Renzi. Si parte, ovviamente, con i 4,5-5 miliardi necessari al taglio di Tasi sulla prima casa, Imu agricola e sugli imbullonati. Poi ci sono gli interventi, ancora confusi, sul lavoro. Si parla di una proroga della decontribuzione, dimezzata però da 8.060 euro a circa 4mila. Il costo previsto oscilla tra gli 1,5 e i 2 miliardi. La misura dovrebbe far parte di un pacchetto a sostegno delle imprese che dovrebbe comprendere anche un primo taglio all’Ires di circa 1,5 miliardi. C’è poi il capitolo pensioni, dove una qualche forma di flessibilità sembra ormai scontata, anche se ridotta all’osso. La quadra è ancora lontana. Restano in pista le ipotesi del prestito pensionistico a carico delle imprese e della penalizzazione sull’assegno pagata dagli stessi pensionati. Insieme a misure di sostegno per l’esclusione sociale e la povertà si parla di costi per 1,5-2 miliardi. In tutto si tratterebbe di 32-33 miliardi. Senza contare i circa 10 miliardi che servono per finanziare il bonus di 80 euro ormai reso strutturale.
Il conto delle coperture è presto fatto. L’una tantum della voluntary disclosure dovrebbe portare 1,5 miliardi e la minore spesa per interessi 4-5 miliardi. La spending review sarà più soft, a quota 6-7 miliardi, mentre il governo pensa di incassare altri 7-800 milioni dalla tassazione sui giochi. Il resto dovrebbe arrivare dalla flessibilità Ue. Se Renzi portasse tutto a casa il malloppo potrebbe arrivare a circa 16 miliardi. Che porterebbe il totale sui 29 miliardi, ancora al di sotto delle spese.
Per colmare il buco il premier spera nella congiuntura. E uno spiraglietto è arrivato ieri dall’Fmi, che ha alzato le stime sul pil dell’Italia a +0,8% nel 2015 e a 1,3% nel 2016. Valori che restano comunque sotto le attese del governo, anche sesecondo il Fondo l’Italia potrebbe addirittura fare «come o meglio della Germania».
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