sabato 31 ottobre 2015

L'Agenzia delle entrate perde pure con D&G

Altro che esterovestizione. I giudici della Cassazione hanno impiegato più di un anno. E il caso ha voluto che le motivazioni della clamorosa assoluzione del 24 ottobre 2014 di Domenico Dolce e Stefano Gabbana arrivino proprio nel momento più difficile dell’Agenzia delle entrate, alle prese con i dissensi nel governo e il caos provocato dalla sentenza della Consulta sui dirigenti illegittimi. La lettura delle pagine depositate ieri dai magistrati di Piazza Cavour non aiuterà di certo a migliorare l’immagine del fisco. Secondo le toghe, infatti, la decisione dei due stilisti di creare a Lussemburgo la società GaDo per sfruttare i loro marchi aveva «robuste ragioni extrafiscali ispiratrici della riorganizzazione del gruppo» che «scardinano la coerenza intrinseca del ragionamento accusatorio, conducendo verso approdi lontani sia dai principi di diritto sia dai temi di indagine quasi del tutto inesplorati e per certi versi contradditoriamente risolti».

I due stilisti erano stati condannati, e immediatamente esposti al pubblico ludibrio (l’assessore Franco D’Alfonso chiese addirittura la restituzione del premio Ambrogino) , dalla Corte d’Appello di Milano il 30 aprile 2014 ad un anno e sei mesi di reclusione. Oltre al risarcimento di 500mila euro all’Agenzia delle entrate. L’accusa gli contestava di non aver pagato tributi su un giro d’affari di 200 milioni a seguito dello spostamento dell’attività, nel 2004, in Lussemburgo.
Tesi demolita dagli ermellini. «Il vantaggio fiscale», sostengono i giudici in un documento che assume i contorni di un trattato sulla libertà d’impresa, «non è indebito solo perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale. Lo è se è ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio». E il fatto che sia stato accertato che alla sede lussemburghese fossero stati affidati «i soli compiti esecutivi», mette in crisi l’accusa che la GaDo fosse esterovestita, dal momento che «si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva, sì da giustificare una sede amministrativa collocata in una struttura diversa da quella legale».

Resta da capire cosa succederà sul piano tributario. I due hanno già versato circa 40 milioni nell’ambito del contenzioso per l’evasione dell’Iva. Ma il fronte di battaglia è molto più ampio. Dal 2010, quando l’Agenzia delle entrate notificò i primi due accertamenti elevando la voce «altri redditi»  da 25,4 milioni a 442,3 milioni, gli stilisti sono stato sottoposti ad un vero e proprio assedio fiscale che ha portato ad una maxi multa da 343,4 milioni inflitta nel 2013 (per la presunta cessione del marchio alla GaDo a prezzo inferiore a quello reale) dalla commissione tributaria di Milano e a una contestazione su 133 milioni di imponibile Ires. Soldi e sanzioni che ora lo Stato, a rigor di logica, dovrebbe restituire e annullare. Tutto l’accanimento degli ispettori ruota, infatti, intorno alla presunta esterovestizione della Gado. Il problema è che ogni giurisdizione segue il suo corso. E non è affatto detto che i procedimenti tributari, su cui in ultima istanza dovrà sempre esprimersi l’Alta corte, si concluderanno nella stessa maniera.

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