domenica 14 agosto 2016

Sapelli: "Non facciamo l'errore del Giappone"

«Taglio robusto delle tasse e un grande piano per gli investimenti». Solo così, secondo l’economista Giulio Sapelli, si può combattere la «sindrome giapponese» verso cui il Paese sembra incamminarsi in assenza di una accelerazione significativa del governo sulle politiche per lo sviluppo. Il pil che non riparte, come certificato venerdì dall’Istat, non è stato una sorpresa per il professore di Storia economia all’Università di Milano. «L’ascensore sembra che abbia smesso di scendere», spiega Sapelli, «ma questo non significa che la ripresa sia dietro l’angolo. Come ci ha insegnato l’esperienza giapponese la fine della recessione non si accompagna automaticamente alla crescita».

E cosa ci aspetta?
«Un fenomeno forse peggiore della recessione, perché nessuno sa esattamente come evitarlo. Siamo di fronte ad una stagnazione da deflazione. E i dati italiani ci dicono che potrebbe essere destinata a durare a lungo».
Cosa significa esattamente?
«Significa che c’è poca domanda interna, i salari sono troppo bassi, i prezzi scendono e i cittadini non consumano. La dimostrazione sta nei depositi bancari cresciuti. Gli 80 euro non sono stati spesi, ma messi in un istituto di credito. Per due motivi: da una parte perché si ha paura di rimanere senza risparmi, dall’altra perché si spera che domani i prezzi scenderanno ancora e l’acquisto sarà più conveniente».
In questo modo i prezzi continueranno a scendere e i consumi diminuiranno ancora. Un cane che si morde la coda...
«Esatto. E il tutto, come si evince anche dall’ultima analisi di Mediobanca sulle imprese italiane, ha generato una caduta dei margini anche nelle imprese attive, quelle più vocate all’export».
Come se ne esce?
«La cosa più seria sarebbe stimolare gli investimenti non per via monetaria, perché altrimenti si argina la recessione ma non si stimola la crescita».
E in che modo?
«Bisognerebbe innanzitutto detassare, perché siamo uno dei Paesi con la pressione fiscale più alta del mondo, e poi mettere in campo risorse per lo sviluppo. Se non ci sono investitori privati bisogna ricorrere a quelli pubblici».
Le misure annunciate dal governo vanno nelle giusta direzione?
«Quelle annunciate sì, ma poi bisogna passare dalle parole ai fatti. E su questo terreno l’azione di governo è troppo debole. Mi chiedo, ad esempio, dove sia finirto il piano Juncker. Il progetto andava nel verso giusto ma è sparito. Se fai un piano comunitario devi poi prepararti a sostenerlo in Europa. Ma se Matteo Renzi non capisce che deve spostare la partita dalla Commissione al Consiglio Ue troverà sempre la Germania pronta ad opporsi».
Anche la spending review è sparita...
Su questo capitolo bisogna essere implacabilmente seri. Il taglio della spesa pubblica da solo non provoca l’uscita dalla stagnazione. Anzi, rischia di aggravarla, perché in qualche modo riduce la domanda. La spending deve essere accompagnata alla semplificazione e al miglioramento della Pa, innanzitutto. Ma serve un piano sistemico che comprenda anche il rilancio degli investimenti e il taglio delle tasse».
Renzi dice di averle già tagliate...
Troppo poco e senza inserire i tagli in un progetto più ampio. In questa situazione anche con un po’ di fisco in meno la gente non investe, ma risparmia. È la sindrome giapponese. Per combatterla il premier deve avere il coraggio di andare fino in fondo. Soprattutto ora che le condizioni geopolitiche ci permettono di ottenere più margini di manovra in Europa».

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