Altro che Keynes. «Senza investimenti privati non si va da nessuna parte. E in Europa chi ha tagliato le tasse e ridotto la spesa se l’è cavata meglio degli altri». Non ha dubbi Alessandro De Nicola, presidente della Adam Smith Society e senior partner di Orrick Italia. Da sempre su posizioni ultraliberiste, la storia delle politiche in deficit per rilanciare la crescita gli fa venire l’orticaria. Così come le iniziative sul tavolo della legge di stabilità, che rischiano di sperperare risorse preziose per neutralizzare la stangata da 15 miliardi prevista dalle clausole di salvaguardia. «Se verrano evitate spese inutili, come quelle per l’Ape o rinnovi contrattuali per la PA troppo generosi, si rinuncerà a elargizioni estemporanee come l’inutile bonus ai diciottenni», spiega l’economista, «si dovrebbe riuscire ad approvare una finanziaria decente senza attivare la clausola sull’Iva».
Ci sono margini per ottenere maggiore flessibilità in Europa?
«Si, purtroppo. In questo momento la debolezza di Renzi e dell’economia italiana paradossalmente diventano un’arma negoziale per il governo italiano».
Ritiene che le risorse recuperate debbano essere destinate agli investimenti?
«Se si intende un’impostazione quale quella che sembra voler dare il ministro Calenda, vale a dire detassare almeno parzialmente gli investimenti da parte delle imprese in modo neutrale, senza che sia lo Stato a scegliere i progetti preferiti o ad imbottirci di ulteriori grandi opere, sì sono d’accordo».
La battaglia contro l’austerity viene spesso associata al trionfo delle tesi keynesiane sul sostegno pubblico all’economia. Pensa che il problema della Ue sia stato quello di impedire politiche espansive in deficit?
«Penso che l’Europa avrebbe potuto attivare politiche di bassa tassazione, incoraggiamento degli investimenti e prudenza nella spesa pubblica ed avere risultati eccellenti. Chi lo ha fatto, ora gode: Svezia, Germania, Irlanda, Regno Unito, Spagna. In alcuni casi il deficit iniziale è stato eccessivo, come in Spagna e Regno Unito, costringendo a un recupero più lento. Incidentalmente: i paesi in crisi strutturale, Francia e Italia, non hanno tagliato un bel niente».
Esiste una via liberista per sopravvivere in Europa?
«Diciamo che non ci sono in Europa governi liberisti come a Hong Kong. Comunque quelli meno statalisti che ho citato prima e qualcuno dell’Europa Centro orientale come la Polonia se la sono cavata assai meglio».
Taglio dell’Ires nel 2017 e dell’Irpef nel 2018. Era meglio invertire l’ordine?
«Pur essendo un fervente sostenitore dell’appiattimento delle aliquote fiscali per le persone fisiche, penso che la sequenza sia quella giusta, prima l’Ires e poi l’Irpef».
La scarsa crescita ottenuta finora dall’Italia è un problema storico di scarsa competitività o il frutto di politiche sbagliate?
«Scarsa competitività ed efficienza soprattutto della PA, aggravata da politiche sbagliate. Molte imprese sono ultra competitive e la bilancia dei pagamenti lo dimostra».
Una volta la via maestra per la crescita era meno spesa e meno tasse. Ora tutti dicono che senza investimenti pubblici non si riparte. È davvero così?
«Macché. Una componente di investimenti pubblici nelle economie miste di oggi è necessaria: le strade, per riprendere Adam Smith, qualcuno deve farle. Ma le economie che vanno bene sono quelle che attraggono gli investimenti privati, su questo non c’è alcun dubbio, basta guardarsi in giro. Se bastasse aumentare la spesa pubblica e gli investimenti oggi, visto l’andamento esplosivo fino al 2011, ci sarebbe un paese più ricco di tutti gli altri: la Grecia».
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