Il fatto è accertato. In una toilette dello stabilimento Sata di Melfi (del gruppo Fca) un giorno è spuntata una scritta dal contenuto inequivocabile: «A morte i capi». Dettaglio non irrilevante, il messaggio era vergato non con un normale pennarello, ma con delle feci fresche e maleodoranti.
La notizia è che si può fare. È tutto lecito. Se siete lavoratori dipendenti e domani vi viene voglia di scrivere sui muri del bagno dell’ufficio una minaccia o un insulto rivolto ai superiori con i vostri escrementi o, se gradite, con quelli di qualcun altro, siete liberi di farlo. Senza Conseguenze. L’autore della singolare missiva, dopo un lungo iter giudiziario, è stato infatti reintegrato al suo posto di lavoro. E l’azienda dovrà anche restituire tutti gli stipendi non versati. Oltre ad eventuali richieste di risarcimento.
L’episodio, come ha ricostruito ieri la Gazzetta del Mezzogiorno, risale alla metà del 2004, anno in cui Sergio Marchionne prese la guida della Fiat. Il periodo delle grandi contestazioni, della crisi e della cassa integrazione è ancora lontano, ma le tensioni in azienda non mancano. Dal 17 aprile 2004 al 9 maggio i lavoratori danno vita ad un lunghissimo sciopero, passato alla storia come «i 21 giorni di Melfi», per rivendicare migliori condizioni salariali. L’autore della scritta riceve la lettera di licenziamento l’8 luglio. Il primo ricorso, al tribunale di Melfi, viene rigettato a gennaio dell’anno successivo.
Ma il lavoratore non demorde e presenta richiesta di appello alla Corte di Potenza. Qui, nel novembre del 2013, l’orientamento si capovolge e il licenziamento viene considerato «illegittimo perché sproporzionato». La sentenza è diventata definitiva con la decisione della Cassazione dello scorso 25 agosto di respingere il ricorso dell’azienda.
Sembra che a far pendere la bilancia dalla parte del lavoratore ci sia stata la valutazione del suo stato di salute. Un elemento che non era stato chiesto dalla difesa ma che i giudici hanno ritenuto di dover prendere in considerazione per valutare la sproporzione tra fatto e sanzione in presenza di una «sindrome depressiva reattiva» che, evidentemente, spingeva il lavoratore a scrivere nella toilette e non gli consentiva di avere una precisa cognizione della gravità del gesto.
L’altro punto contestato dalla Sata è stato la volontà di ignorare che in precedenza si erano già verificati fatti analoghi nella stessa toilette. La Corte ha infatti stabilito che non è stata «raggiunta la prova di ascrivibilità» allo stesso lavoratore e che, per questo motivo, diventavano ininfluenti ai fini del giudizio.
Il diritto non si discute, ma in questo modo è passato il principio che allo stabilimento Fiat di Melfi i dipendenti non solo sono soliti scrivere nei bagni con le feci, ma scelgono, fenomeno quantomeno insolito, sempre lo stesso bagno.
Ma tant’è. Come si legge nella sentenza della Cassazione, la Corte d’Appello di Potenza «nel reputare la condotta non tanto grave da meritare il licenziamento ha valorizzato lo stato di salute psichica” del lavoratore, “il suo modesto livello culturale (desunto dalle mansioni espletate) e l’assenza di precedenti disciplinari in tutto il precedente arco temporale del rapporto di lavoro». Si tratta di valutazioni di merito che la Suprema Corte, codice alla mano, «non può correggere in alcun modo».
Non è la prima volta che Fca incassa sentenza sfavorevoli relative allo stabilimento di Melfi. La più nota risale al 2013, quando la Cassazione ha confermato l’illegittimità e antisindacalità dei licenziamenti di tre lavoratori iscritti alla Fiom nel luglio del 2010 per aver ostacolato la ripresa dell’attività in seguito ad una assemblea non autorizzata. Il sindacato in quell’occasione festeggiò la grande vittoria della giustizia contro lo strapotere dei padroni della Fiat. Il contenzioso maturò, infatti, negli anni di dura contrapposizione dei metalmeccanici della Cgil contro le iniziative messe in atto da Sergio Marchionne per superare (come poi ha fatto) la crisi. Tutt’altra storia rispetto alle minacce di sterco. Da oggi, incredibilmente, diventate legali.
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