venerdì 26 agosto 2016

Lo Stato fa le norme antisismiche e poi non le rispetta

La politica italiana si è accorta realmente del terremoto il 31 ottobre del 2002, quando una scuola elementare di San Giuliano di Puglia crollò sulla testa dei bambini, lasciandone 26 (più la povera maestra) sotto le macerie. La tragedia fece venire il sospetto a qualcuno che forse le regole della prevenzione sismica, che salvano vite e fanno risparmiare soldi, doveva essere lo Stato il primo a rispettarle. Da allora si è fatto un gran parlare di misure anti-terremoto, di piani nazionali, di mappature del rischio. E dell’inadeguatezza delle vecchie leggi emanate tra il 1974 e i primi anni  80.

Per approvare una normativa completa sulla prevenzione ci è però voluto un altro terremoto, quello del 2009 dell’Aquila. Ora i vincoli ci sono. Severi e stringenti. Peccato che nessuno li rispetti. Il termine ultimo entro il quale gli edifici e le opere di interesse strategico (scuole, ospedali, municipi, caserme e prefetture) avrebbero dovuto fare la verifica di vulnerabilità è scaduto a marzo 2013.
Ebbene, ad agosto 2016 i controlli sono ancora in alto mare. Al punto che nessuno sa esattamente quali e quanti siano gli edifici pubblici non in regola in Italia. Le ultime rilevazioni effettuate dal Consiglio nazionale dei geologi sulle scuole parlano di 24mila istituti a rischio sismico e 7mila a rischio idrogeologico su 42mila edifici presenti sul territorio nazionale. In pratica il 75% delle scuole italiane potrebbe franare sopra i nostri figli in caso di terremoto.

Non va meglio per gli ospedali. Anzi, va esattamente allo stesso modo. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario del 2013 confermò il dato preesistente di 500 ospedali non sicuri su un totale di poco più di mille. Ma dalle verifiche dirette effettuate su 200 ospedali è emerso che il 75% presentava un indicatore di rischio di stato al limite di collasso. Questi edifici, per essere chiari, «crollerebbero con un terremoto di magnitudo superiore a 6,2-6,3». Proprio come è successo all’ospedale di Amatrice.
La situazione è drammatica anche per l’edilizia pubblica residenziale. Basti pensare che circa il 60% del patrimonio gestito dagli ex Iacp (pari a circa 450mila alloggi) è stato costruito prima del 1981, cioè quando non esisteva alcun protocollo, neanche blando, di prevenzione dal rischio sismico.
Complessivamente, secondo un calcolo effettuato nel 2008 dalla protezione civile gli edifici pubblici di valore strategico da rinforzare sono 75mila. Allora il conto era di 50-60 miliardi di euro.

A distanza di 8 anni la cifra non è cambiata molto. Quello che è cambiato è la fanfara della politica. Dal 2009, dopo l’Abruzzo, è stato istituito il Piano nazionale per la prevenzione del rischio sismico con una dotazione pluriennale che viene distribuita alle Regioni per gli interventi. Dietro gli annunci periodici del governo e il monitoraggio degli interventi, però, ci sono solo pochi spiccioli. La cifra complessiva stanziata dal 2010 al 2016 è di 965 milioni. La stessa Protezione civile (incaricata di coordinare gli interventi) ammette che, «pur se cospicua rispetto al passato, rappresenta solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno che sarebbe necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni».
La beffa è che anche quando le leggi vengono rispettate i muri crollano lo stesso, come è accaduto alla scuola di Amatrice, edificata nel 2012 seguendo le nuove normative antisismiche. E lo Stato, che non vuole e non sa fare prevenzione, dovrà ricostruire. L’Ance ha calcolato che dal 1968 ad oggi per i disastri dei terremoti sono stati spesi 180 miliardi. Forse conveniva sborsarli prima. Si risparmiavano soldi. E vite.

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