Una rischiosa e inutile partita a «rubamazzetto». A questo, al di là della retorica e delle celebrazioni condite di aggettivi altisonanti sulle sorti magnifiche e progressive del Vecchio Continente, si riduce l’architettura economica dell’Unione europea. A tracciare il quadro di «un gioco a somma zero» in cui gli unici risultati positivi si ottengono rubando risorse al proprio vicino di casa («beggar-thy-neighbour», letteralmente rubamazzo) non è il solito euroscettico che tuona contro lo straniero, ma un pool di autorevoli economisti di Mediobanca, che lo scorso ottobre ha pubblicato un dettagliatissimo report sulla situazione italiana e sui guai provocati dall’eurosistema. Un lavoro di cui quasi nessuno si è occupato tranne, allora, il quotidiano The Telegraph e, oggi, Mario Giordano, che nel suo ultimo libro «Non vale una lira. Euro, sprechi, follie: così l’Europa ci affama» (Mondadori), inserisce lo studio in un lungo elenco di analisi con cui negli ultimi anni le grandi banche d’affari avevano previsto e contemplato la possibilità che per il nostro Paese fosse necessario e, secondo alcuni, opportuno liberarsi dalla gabbia europea.
Al centro del corposo report (123 pagine) realizzato dal team di esperti guidato da Antonio Guglielmi c’è il cosiddetto ciclo di Frenkel, dal nome dell’economista argentino Roberto Frenkel che nel 1983, sull’esperienza di quanto era successo in Cile e nel suo stesso Paese, elaborò un modello in sette passaggi di quello che accade quando un Paese debole blocca il suo tasso di cambio a quello di un’economia più competitiva. La sequenza descrive in maniera impressionante quanto accaduto ai Paesi periferici, e in particolare all’Italia, con l’ingresso nell’Euro. Subito dopo la prima fase, la creazione di un’unione monetaria, scatta il secondo passaggio: i Paesi più forti iniziano ad investire (soprattutto prestando denaro) in quelli più deboli sfruttando alti tassi di interessi e la certezza del cambio fisso. Si arriva così alla fase 3: «grazie all’iniezione di nuova liquidità, il livello di consumo interno e della domanda determinano un aumento del Pil e dell’occupazione, l’inflazione comincia a salire». A questo punto, fase 4, la competitività inizia a peggiorare ma i flussi di liquidità continuano a drogare il Paese, favorendo l’indebitamento privato e gonfiando il prezzo dei beni, a partire da quelli immobiliari. Con il quinto passaggio iniziano i guai seri. Gli investitori cominciano a fiutare il vento e bloccano i flussi. Esplode la bolla immobiliare, crollano i consumi e il Paese precipita in recessione. Ed è qui, fase 6, che entra in gioco la gabbia monetaria: il tasso di cambio bloccato impedisce l’assorbimento dello shock e le tensioni si scaricano tutte sui titoli di Stato. L’ultimo passaggio è quello dell’armageddon: gli attacchi speculativi mettono in ginocchio il Paese. L’unica strada per evitare il «collasso» è quella di rompere le sbarre e uscire dalla gabbia. Inutile, infatti, sperare nella cura Draghi, che finora ha in qualche modo tenuto in piedi l’Europa. Il programma di intervento della Bce (l’Omt osteggiato dalla Germania) per abbassare le tensioni sui titoli di Stato, avvertono gli esperti di Mediobanca, può soltanto permettere di tornare indietro dal punto 6 al 5, ma i problemi restano e si rirpresenteranno.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe dire che l’Italia era già malata prima di entrare nell’euro, che la colpa è delle mancate riforme e che le analisi di Frenkel c’entrano poco con i nostri ritardi cronici. Nessuno, e neanche gli economisti di Mediobanca lo fanno, sostiene che il nostro Paese non abbia assoluto bisogno di riforme strutturali, ma i numeri raccontano una storia diversa da quella che piace sentire agli europeisti in servizio permanente effettivo. Prendiamo la competitività, considerata da sempre la causa atavica dei nostri mali. Ebbene la curva del livello di produttività dei nostri lavoratori dal 1970 ad oggi traccia una linea che permette di individuare con facilità tre battute di arresto. Si tratta delle tre date, secondo gli analisti di Piazzetta Cuccia, che «spiegano il gap del 20% di competitività che l’Italia ha accumulato rispetto al nucleo europeo». La prima è il 1979, quando il nostro Paese è entrato nel Sistema monetario europeo che ha bloccato l’oscillazione dei tassi entro una finestra del 6%. La seconda è il 1989, quando l’Italia ha accettato di mantenere i tassi di cambio bilaterali fissi all’interno di una forbice di variazione del 2,25%. La terza nel 1996, quando il Paese rientra nello Sme ed è costretto a rivalutare la moneta dell’8% per prepararsi all’Euro. In tutti i casi la competitività va a picco. «Rifutarsi di mettere in relazione la sottoperformance della produttività italiana al sistema di cambio fisso che l’Euro ha comportato», scrivono gli economisti di Mediobanca, «significa semplicemente negare l’evidenza».
Ma l’analisi più plateale dei guai provocati al nostro Paese dai tassi bloccati al livello della Germania è quella che parte dai dati macroeconomici. Il debito pubblico, si legge infatti nel report, «è il sintomo, non la causa della bassa crescita». A far esplodere la crisi dei Paesi periferici e dell’Italia è stato piuttosto il debito privato, gonfiato dagli investimenti previsti dalla seconda fase del ciclo di Frenkel. «Il debito privato dell’eurozona tra il 1999 e il 2007», si legge, «è aumentato del 27% (50% al centro/200% in periferia) rispetto ad un debito pubblico sceso del 7% (-8% in Italia)». Quanto al deficit, l’Italia si muove intorno ad una forbice dello 0-4% da quando è entrata nell’euro, a causa principalmente di una riduzione del 5% dei risparmi privati. Nel frattempo, dal 1999 al 2012 la Germania ha accumulato un surplus del conto corrente di 1.400 miliardi di euro (il 50% del pil del 2012), mentre l’Europa periferica ha registrato un deficit esattamente della stessa cifra (249 miliardi, il 16% del pil, per l’Italia). E’ tutto qui, in queste due cifre, il «rubamazzetto». Un gioco perverso da cui si può uscire soltanto facendo saltare il tavolo. Mediobanca si ferma un attimo prima di suggerire l’uscita dall’euro. Ma basta guardare una tabella con le massicce svalutazioni effettuate da molti Paesi nel mondo tra il 1998 e il 2010 per uscire da periodi di crisi (esattamente quello che accadrebbe se dicessimo addio alla moneta unica) per vericare che in 10 casi sui 14 presi in esame il pil non solo non è crollato, ma nell’arco di tre anni è risultato sempre in sensibile crescita. Così come è successo all’Italia con le svalutazioni del 1992. Tre anni dopo il pil era più alto del 6%.
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