In tempi di vacche magre e liquidità azzerata i soldi degli arabi sono manna dal cielo. Per Enrico Letta, poi, la potenza di fuoco dei fondi sovrani potrebbe essere l’ultima carta da giocare per evitare di far miseramente naufragare il piano di privatizzazioni a cui sono sostanzialmente appesi tutti gli impegni di bilancio con la Ue.
Di qui lo sforzo profuso dal premier nella trasferta araba. Un viaggio a caccia di soldi e promesse. Dove le seconde, però, superano ancora di gran lunga i primi.
Negli Emirati, prima tappa del tour governativo, Letta ha incassato il via libera definitivo delle trattative tra Alitalia ed Ethiad. Trattative già avviate dai rispettivi management, a cui il premier ha aggiunto quella «rassicurazione politica» che serviva per mettere il sigillo finale. Ma il vero obiettivo di Letta era quello di saggiare l’interesse degli investitori per «l’ambizioso piano di privatizzazioni», che i «mercati sono pronti a recepire». Segnali positivi sono arrivati dalla tappa in Qatar, con Doha che sarebbe pronta a mettere capitali nella dismissione di Poste e Fincantieri. Ma soprattutto in quella dell’Eni, dove i qatarini (che già detengono una quota sotto il 2%) sono pronti a salire con la cessione della nuova tranche (si parla di un 4%). E nel mirino del ricco fondo sovrano del Qatar potrebbe esserci anche un interesse per il 25% di Aeroporti di Roma.
Il piatto forte dell’intera missione sarebbe però quello portato a casa ieri in Kuwait, con un tesoretto da 500 milioni di euro destinato alle imprese. Letta, criticando il «disfattismo» di Confindustria, ha parlato senza mezzi termini di «colpo grosso» che avrà importanti ricadute sulla crescita e sul lavoro. In realtà, l’affare chiuso ieri con la Kuwait Investment Authority, che ci ha concesso una briciola dei suoi 250 miliardi di dollari gestiti, rientra in una serie di operazioni a cui il Fondo strategico italiano (Fsi, controllato dalla Cdp con una quota di minoranza del 20% di Bankitalia e una partecipazione di Fincantieri) sta già lavorando da un po’ e anche con risultati migliori. La prima risale al novembre 2012, quando il governo di Mario Monti siglò un accordo con la Qatar Holding Llc per la costituzione della IQ Made in Italy Investment Company, una joint venture paritetica con l’Fsi da 2 miliardi di euro. Lo scorso novembre è stata invece la volta della Russia, con cui il Fondo ha siglato un memorandum d’intesa per la creazione di una piattaforma di investimento da 1 miliardo.
Si arriva così all’accordo di ieri: un’altra joint venture con Fsi. Questa volta da 2,5 miliardi di cui però solo 500 milioni (il 20%) a carico del fondo sovrano del Kuwait. Degli investimenti operati da queste società congiunte non si sa ancora molto. Di sicuro finora il Fondo strategico, che per statuto non può comprare società in perdita, si è mosso più su operazioni di sistema che sul made in Italy. Grazie al conferimento di Bankitalia Fsi ha in pancia il 4,5% di Generali e, dallo scorso ottobre, anche l’Ansaldo Energia, acquistata da Finmeccanica. Precedentemente lo strumento della Cassa depositi aveva indirizzato le sue risorse (a dicembre 2013 risultavano impegnati 2,6 dei 4,4 miliardi disponibili) soprattutto sulle infrastrutture, a partire da Metroweb (con un impegno complessivo di 500 milioni), la società della fibra ottica milanese controllata da F2I, che avrebbe dovuto costituire il primo embrione di quella società delle reti per lo sviluppo della banda larga di cui si è poi persa traccia.
Quanto ai fondi sovrani, non si può non ricordare che il nostro Paese, stando ai dati di Bankitalia relativi al periodo 1990-2010, è al 20esimo posto tra le economie che attirano questi investimenti, con sole 28 operazioni per un controvalore di 5,1 miliardi, l’1% del totale. È anche per questo probabilmente che, malgrado il buon esito della trasferta, il presidente di Confindustria, Giorgio Saquinzi, è tornato ieri, sostenuto anche dai renziani del Pd, a chiedere un «cambio di passo» del governo.
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