mercoledì 24 agosto 2011

Anche la Cina scalpita per i pozzi libici


I fucili ancora non hanno smesso di sparare, ma gli emissari delle compagnie e le diplomazie internazionali sono già al lavoro per ripartire alla conquista dei pozzi libici. Sullo scenario si stanno muovendo sia i vecchi attori, che sperano di confermare il proprio ruolo o di spostare i precedenti equilibri a proprio vantaggio, sia soggetti, come la Russia o la Cina, che tentano di approfittare del caos post bellico per accaparrarsi una fetta più grande della torta.

Il mercato del Paese nordafricano è troppo ghiotto per non provare a gettarsi nella mischia. Nel 2010, secondo l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie), la Libia ha prodotto 1,55 milioni di barili al giorno (ora sono solo 50mila), che salgono a 1,79 milioni considerando la produzione complessiva di idrocarburi. Le riserve di petrolio sono le più grandi di tutta l’Africa, con 44 miliardi di barili. Più della Nigeria (37,2 miliardi) e dell’Algeria (12,2). Mentre quelle di gas ammontano a 1.540 miliardi di metri cubi.
Il tempo per muovere le proprie pedine non dovrebbe mancare. Qualche tecnico ottimista ritiene che per riattivare la produzione degli impianti esistenti potrebbe bastare qualche mese, al massimo un anno. Più verosimilmente l’Aie avverte che la ripresa della produzione sarà costante, ma lenta e che non si giungerà alla piena efficienza prima del 2015.

Prima dell’inizio delle ostilità i principali acquirenti del petrolio libico erano Italia (32%), Francia (10%), Cina (10), Germania (14) e Spagna (9). A gestire i pozzi, oltre alla nostra Eni, c’erano principalmente la francese Total, la spagnola Repsol, i giganti anglosassoni Bp, Shell ed ExxonMobil, ma anche il colosso cinese Cnpc.
Il Cane a sei zampe, che dalle attività in Libia ricava il 13% dei suoi 98 miliardi di fatturato, ha finora avuto un ruolo di primo piano sia nell’estrazione del gas che in quella di petrolio (244mila barili al giorno), con concessioni che nel 2008 erano state rinnovate fino al 2047. Sono in molti, però, a pensare che il dividendo petrolifero della vittoria su Gheddafi debba essere ripartito in proporzione al ruolo svolto nelle operazioni della Nato. Il che significa Stati Uniti, in prima istanza, Francia ed Inghilterra a seguire. Certo, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, continua a ribadire che senza il contributo dell’Italia la Nato non avrebbe cavato un ragno dal buco. Bisogna, però, vedere cosa ne pensano i libici. Nell’incertezza, Nicolas Sarkozy, si è precipitato ad invitare ufficialmente il premier del Consiglio di transizione libico, Mahmoud Jibril, in un incontro che si terrà oggi a Parigi. E Bp ha già fatto sapere di essere pronta a tornare da subito in Libia.

Ma tra i Paesi che scaldano i muscoli ci sono anche alternative da non sottovalutare. Una è la Russia, che con la sua Gazprom qualche settimana prima dell’inizio della guerra aveva siglato un accordo per l’ingresso nel mega giacimento Elephant, (700 milioni di barili di riserve) di cui l’Eni detiene (deteneva?) il 33,3%. Non si esclude poi una mossa a sorpresa di Pechino. Malgrado la Cina nel consiglio di sicurezza dell’Onu non abbia votato a favore della risoluzione contro la Libia, sembra che il Paese abbia intrattenuto intensi rapporti commerciali con i ribelli nei mesi caldi della rivoluzione. Ed ora voglia incassare la cambiale. Proprio ieri la Cina ha chiesto al governo di transizione di proteggere i propri investimenti nel Paese. Una replica alle dichiarazioni di un funzionario della Agoco, la società petrolifera in mano al governo provvisorio, secondo cui Russia e Cina, non essendosi impegnati nella guerra, avrebbero potuto perdere i loro contratti. «Gli investimenti cinesi in Libia», ha fatto sapere Pechino, «specialmente nel settore petrolifero, riguardano la mutua cooperazione economica, nell’interesse di entrambi i popoli». Del resto, prima della guerra, erano 33mila i cinesi presenti in Libia e diversi miliardi i capitali investiti in infrastrutture e nell’estrazione. Soldi che la Cina garantisce al fianco di una consolidata tradizione di non interferenza nei Paesi stranieri che in questa fase potrebbe fare molto comodo a Tripoli.


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