martedì 23 agosto 2011

Le Borse si godono la disfatta di Gheddafi. L’Eni sente profumo di petrolio


Le notizie rimbalzano da Tripoli a Rimini, dove i vertici delle principali aziende italiane, tra una conferenza e l’altra, gironzolano tra gli stand del Meeting di Cl. L’ottimismo sembra dettare la linea. Malgrado la situazione in Libia sia ancora fluida ed incerta, tutti già festeggiano. L’ad di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, dice di aver «parlato con Bengasi» e assicura che «i contratti in essere verrano rispettati». «Si riapre un mercato importante», dice il presidente dell’Eni, «che serviva a garantire il fabbisogno italiano di energia». E il fatto che succeda prima dell’inverno, continua, «è una cosa positiva». L’Enel, con l’ad Fulvio Conti, si dichiara addirittura pronto a valutare «opportunità di investimento» nel Paese nordafricano ora che non c’è più Gheddafi.

Anche nei mercati l’euforia ha avuto la meglio. Dopo la notizia dell’entrata dei ribelli a Tripoli, tutte le aziende italiane attive in Libia hanno messo il turbo a Piazza Affari. In particolare Eni (+6,3%) ed Ansaldo Sts (+5,03%). Più contenuti i rialzi di Finmeccanica (+1,3%), Impregilo (+1,1%) e Saipem (+1,1%).
Al di là dell’entusiasmo, però, oltre a capire con più precisione quanto impiegherà la Libia a rimettere in piedi un governo stabile che possa dare garanzie alle imprese per riaprire gli investimenti e far ripartire le attività, è ancora da valutare l’impatto dei sei mesi di guerra sui bilanci delle nostre aziende. Il conto, stando a quanto spiega la Camera di Commercio ItalAfrica Centrale, è salato. Secondo il presidente Alfredo cestari, tenendo conto anche del blocco dell’import-export i danni sarebbero superiori ai 100 miliardi di euro. Un’esagerazione? Forse. D’altra parte solo per l’Eni, che dal territorio nordafricano estrae il 12,5% del nostro fabbisogno di gas e il 23% di quello petrolifero, le attività in Libia rappresentano il 13% di un fatturato totale che nel 2010 ha sfiorato i 100 miliardi. Al Cane a sei Zampe bisogna aggiungere altre 130 imprese circa, che, principalmente, operano nei settori dell’energia, delle costruzioni ed opere civili, della ingegneria, dei trasporti e delle telecomunicazioni. L’elenco, solo considerando i gruppi conosciuti, è lungo. Ci sono Finmeccanica, Alenia, Ansaldo Sts, Snam Progetti, Impregilo, Edison, Saipem, Tecnimont, Iveco, Sirti, Telecom, Grimaldi, Alitalia. A seguire, decine di altre aziende più o meno grandi. Tra queste, secondo la Camera di Commercio, una schiera di Pmi che prima della guerra stava investendo in Libia oltre 60 milioni di dollari. Soldi sicuramente più a rischio rispetto a quelli impegnati dai grandi gruppi a cui il nuovo governo difficilmente sbatterà la porta in faccia.

Chi risarcirà i piccoli? L’idea lanciata ieri da Paolo Romani, sempre da Rimini, è da prendere con le molle, vista l’aria che tira. «Stiamo provvedendo ad un emendamento per le centinaia di aziende italiane che hanno avuto danni in Libia», ha detto il ministro dello Sviluppo, senza chiarire bene né di quante risorse si parla né da dove saranno prese e neanche se il provvedimento entrerà in manovra. Il ministro si è comunque detto convinto che «la partecipazione del nostro Paese alla guerra e gli eccellenti rapporti che intratteniamo con il Consiglio di transizione ci garantisco sul futuro dei rapporti economici con la nuova Libia». La strada, in ogni caso, è lunga. «Nessuna novità e prevista a breve», hanno detto sia Orsi sia Recchi, consapevoli che bisognerà anche verificare se senza Gheddafi i precedenti equilibri sulla presenza economica straniera nel Paese verranno confermati.  Resta da capire che fine faranno gli investimenti libici in Italia. Il fondo sovrano Lia (Libyan Investment Authority) creato da Gheddafi e la Banca centrale libica hanno infatti in pancia diversi pacchetti di società quotate italiane. Dal 2% di Finmeccanica all’1% circa dell’Eni fino ad oltre il 7% di Unicredit. Prima o poi le quote, allo stato congelate, dovranno essere gestite o cedute.


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