La toppa peggiore del buco. La smania dei partiti (Pd e Cinque stelle in testa) di mostrare agli italiani il proprio vigore nel combattere i privilegi della casta rischia di giocare un brutto scherzo ai contribuenti. Dopo vari stop and go, agguati, fughe in avanti e ripensamenti, il testo base adottato dalla commissione Affari costituzionali della Camera per spazzare via defintivamente dall’orizzonte normativo italiano i vitalizi dei parlamentari, a meno di ulteriori colpi di scena, dovrebbe approdare a giorni nell’Aula.
BEFFA IN ARRIVO
L’evento sarà, presumibilmente, accompagnato dalle solite fanfare dell’antipolitica, ma la beffa è dietro l’angolo. Vale la pena ricordare, innanzitutto, che i vitalizi già non esistono più dal 2012. Per tutti gli eletti dopo quella data la pensione sarà calcolata con il sistema contributivo, con regole simili a quelle dei comuni mortali iscritti all’Inps o alle gestioni previdenziali private. Gli assegni pre riforma, quelli, per intendersi, assai generosi concessi anche per pochi giorni di attività parlamentare, restano ancora in vigore per tutti gli ex deputati e senatori che hanno esercitato un mandato prima del 2012. Per quelli rieletti si applica un sistema misto basato in parte sulla quota di assegni vitalizi maturata al 31 dicembre 2011 e in parte sulla quota calcolata con il nuovo sistema controbutivo.
La proposta di legge in discussione alla Camera, esito dell’abbinamento di una serie di pdl al testo presentato nel luglio 2015 dal pd Matteo Richetti, prevede in sostanza l’applicazione delle nuove norme anche agli ex parlamentari, attraverso un ricalcolo contributivo dei vitalizi attualmente erogati. Per ottenere tale risultato la legge prevede, articolo 8 comma 3, che «l’ammontare delle quote contributive a carico del membro del Parlamento e dell’organo di appartenenza è pari a quello stabilito per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali, di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n 335 e alle successive determinazioni».
L’ACCUSA DELL’ADUC
La traduzione dal politichese, come ha spiegato Primo Mastrantoni dell’Aduc, è che gli ex parlamentari vengono trasferiti d’ufficio all’interno di un sistema nel quale «una quota per la pensione la versa il lavoratore e una parte il datore di lavoro, nella proporzione di 1 a 2,75. Il che significa che ad 1 euro versato dal lavoratore ne corrispondono 2,75 versati dal datore di lavoro».
Ma nel caso dei vitalizi il datore di lavoro è il Parlamento, che finora non ha mai erogato alcun contributo, spettando a deputati e senatori provvedere con quote pari all’8,6% dell’idennità. Dove saranno presi i soldi aggiuntivi? «Il risultato», è il timore di Mastrantoni, «sarà che il cittadino contribuente dovrà tirare fuori dalle proprie tasche i soldi per pagare la nuova pensione dei parlamentari».
Un esperto di previdenza come il professor Giuliano Cazzola si è già fatto due conti, arrivando alla conclusione che il costo definitivo per Camera e Senato non sarà, in media, più alto di quello già sostenuto per i vitalizi in essere. Ma di sicuro la sforbiciata agli assegni sarà molto più soft di quella che si avrebbe con un contributivo puro, basato sulle quote effettivamente versate.
CALCOLI VIRTUALI
Il calcolo del montante sarà infatti virtuale, prendendo l’ultimo anno di retribuzione, applicando l’attuale aliquota contributiva del 33% prevista per gli statali (invece dell’8,6% versato realmente dagli ex parlamentari) e moltiplicando il risultato per gli anni di legislatura fatti. Il che crea un ulteriore problema. «I lavoratori italiani a cui si vogliono equiparare gli ex parlamentari», spiega Cazzola, «hanno scoperto l’esistenza del contributivo solo dal primo gennaio 1996. Quale sarà la decorrenza dell’operazione di ricalcolo e trasformazione dei vitalizi? Da quella data, comune a tutti, oppure dal primo giorno in cui il malcapitato si è seduto sui banchi del Parlamento?». La legge non lo dice, ma la differenza non è di poco conto. «Se si intende spingersi indietro fino a dare la caccia ai vecchi vitalizi, si chiede Cazzola, «perché usare per il calcolo del montante contributivo l’attuale aliquota del 33% e non quelle inferiori di volta in volta in vigore negli anni a cui si fa riferimento?». Interrogativi che rendono il terreno della riforma minato e che apriranno la strada, come ha già profetizzato il presidente piddino della commissione Bilancio, Francesco Boccia, alla solita pioggia di ricorsi.
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