«Sulle pensioni si annuncia qualcosa solo quando si è sicuri di farlo. Dobbiamo trovare un meccanismo per cui chi vuole andare prima in pensione rinunciando a un po’ di soldi può farlo, il problema è quanto prima e quanti soldi. Spero di farlo nelle prossime settimane o mesi. Ma per lo Stato deve essere a costo zero». Dopo la girandola di dichiarazioni governative in ordine sparso e lo stillicidio continuo di indiscrezioni giornalistiche (l’ultima di Repubblica) Matteo Renzi ha deciso ieri, durante la trasmissione Porta a Porta, di calare il macigno sulla flessibilità previdenziale, lasciando di fatto spazio solo all’ipotesi lacrime e sangue prospettata da Tito Boeri di tagli del 20-30% dell’assegno.
Che i soldi per un intervento non ci fossero, considerate le difficoltà di Via XX Settembre sulle coperture della manovra, lo si era capito già da un po’. Il viceministro all’Economia, Enrico Morando, che non a caso è incaricato di seguire la legge di stabilità, lo aveva detto chiaramente a fine agosto: riforma delle pensioni solo a costo zero. Una buona parte del governo, e dello stesso Pd, tuttavia non ha mai smesso di sostenere la proposta. A partire dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha più volte parlato apertamente di un intervento oneroso di cui si sarebbe discusso in seno alla legge di Stabilità. Stessa linea seguita dal presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, e dal sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, entrambi firmatari della famosa proposta sul taglio del 2% per ogni anno di anticipo. Una misura, a dire dei promotori, da finanziare inizialmente per poi attendere che, a regime, produca risparmi compensativi.
Alla fine, però, ha vinto la linea del presidente dell’Inps. Secondo Boeri, infatti, la proposta Damiano, la C. 857 attualmente in discussione alla Camera (e domani ci saranno in audizione i sindacati, inviperiti dallo stop del governo) costerebbe al sistema previdenziale circa 8,5 miliardi. Una cifra astronomica, ma errata, secondo il presidente della commisione Lavoro: «I calcoli dell’Inps considerano una platea potenziale e non reale di lavoratori di 62 anni che, varata la norma, andrebbero in pensione tutti e subito, cosa del tutto irrealistica».
Le stime sono bastate, però, a spaventare Renzi, che ha tolto dall’agenda l’ipotesi. Ora sul tavolo rimane una promessa non vincolante, «settimane o mesi», e comunque senza che lo Stato cacci un euro. Come ha ribadito ieri il viceministro Morando, un eventuale intervento deve essere fatto «evitando uno spostamento di risorse aggiuntive verso la previdenza». L’unica via d’uscita resta quindi la proposta Boeri del ricalcolo contributivo della pensione. Una soluzione che secondo molte stime porterebbe ad un taglio dell’assegno tra il 20 e il 30%. E se anche in questo modo l’intervento fosse costoso, non è escluso che torni d’attualità anche il contributo di solidarietà proposto sempre dal numero uno dell’Inps sulle pensioni medio-alte calcolate col sistema retributivo. Se non si fa chiarezza in fretta, ha detto Damiano, «si uccide la speranza di quanti aspettavano una soluzione che era stata annunciata dallo stesso premier per risolvere situazioni anche drammatiche di chi superata una certa soglia di età, i 60 anni, è rimasto senza lavoro, non ha una pensione né ammortizzatori sociali e difficilmente troverà una ricollocazione». Tra questi, inutile dirlo, ci sono anche le centinaia di migliaia di esodati prodotti dalla legge Fornero.
Ed è proprio qui, secondo l’ex ministro del Lavoro, il passo falso di Renzi. «Se il governo decide di non affrontare la questione della flessibilità del sistema pensionistico nella legge di stabilità», ha detto, «oltre a smentire un annuncio fatto nelle scorse settimane, compie una scelta sbagliata e poco lungimirante». A fronte di una sostanziale invarianza di costi in una prospettiva pluriennale, la misura potrebbe stimolare le assunzioni giovanili (dove la disoccupazione è al record del 44,2%) e consentirebbe anche sostanziosi risparmi immediati sulla cassa integrazione, sulle indennità di disoccupazione e, soprattutto, sugli esodati. Capitolo su cui i governi dal 2011 ad oggi, come ha ricordato un altro ex ministro del Lavoro nonché attuale presidente della commissione Lavoro al Senato, Maurizio Sacconi, invocando ieri la flessibilità in uscita, hanno già speso 12 miliardi di euro, «accentuando la frattura sociale tra chi ne ha beneficato e chi no».
Più lapidario l’ennesimo ex ministro del Lavoro, l’attuale presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, che di fronte alle dichiarazioni del presidente del Consiglio si è limitato a twittare: «Renzi abbandona gli esodati: nella Legge di stabilità nessuna copertura per le vittime della legge Fornero, vergogna».
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