domenica 19 luglio 2015

Renzi Babbo Natale: via l'imposta sulla casa e giù l'Irpef e l'Irap

L’economia riparte e le tasse scenderanno. Sul primo punto Matteo Renzi ha avuto gioco facile, parlando all’indomani di un ottimistico bollettino di Bankitalia in cui alcuni indicatori vengono stimati in miglioramento. In particolare, il pil del 2015 viene dato allo 0,7% rispetto al -0,4% del 2014, i consumi delle famiglie allo 0,6% rispetto allo 0,3% e la disoccupazione al 12,2% rispetto al 12,6%. Anche tralasciando il deprimente confronto con l’Eurozona (le ultime stime degli analisti raccolte dalla Bce parlano di un pil all’1,4% e una disoccupazione all’11%), val la pena ricordare che le previsioni sul pil dell’Italia degli ultimi sette anni hanno avuto un margine di errore che va dai 10,5 punti percentuali dell’Ocse ai 13,6 di Bankitalia fino ai 14,3 dei governi, con buchi in termini monetari tra i 200 e i 330 miliardi.

TUTTI GLI AUMENTI
Malgrado questo, l’affermazione di Renzi più difficile da digerire è quella sulle tasse. Intanto c’è il passato recente. Solo per fare alcuni esempi concreti, nell’ultimo anno e mezzo, sotto il governo guidato dal segretario Pd, sono aumentate le accise su benzina e gasolio, le tariffe autostradali (1,5%), le multe, i contributi previdenziali di artigiani e commercianti, l’accise sulla birra (da 2,7 a 3,04 euro per ettolitro), la tassazione delle rendite finanziarie (dal 20 al 26%), quella sui fondi pensione (dall’11,5 al 20%), quella sulla rivalutazione del Tfr (dall’11 al 17%), è diminuita la detrazione per le polizze vita e sono state tagliate quelle Irpef sopra i 55mila euro, è salita la tassa sui passaporti, è stata rimangiata e rimodulata la riduzione Irap inizialmente disposta per le imprese, è schizzata la Tari sui rifiuti ed è aumentata pure dello 0,8 per mille la Tasi con la scusa di finanziare le detrazioni. Su quest’ultimo punto Renzi ha voluto giocare il jolly, promettendo un taglio «vero» della tassazione sulla prima casa, sull’Imu agricola e sugli imbullonati.
Una sortita ad effetto che non può non essere condita con le rilevazioni di Confedilizia, secondo cui il gettito complessivo della tassazione è passato dai 9,2 miliardi dell’Ici 2011 (governo Berlusconi), ai 23,8 miliardi dell’Imu 2013 (governo Monti), ai 20,4 miliardi di Imu e mini Imu (governo Letta) fino al record assoluto di 25 miliardi raggiunto proprio nel 2014 con l’accoppiata Imu e Tasi. Due balzelli che il premier ha ereditato e applicato senza battere ciglio, rendendosi anche protagonista di alcune novità pasticciate proprio su imbullonati e Imu agricola. Un capolavoro di tassazione, quello sugli immobili, che non ha risparmiato chi nelle case non ci abita, ma le dà in affitto. Per i contratti liberi le simulazioni effettuate da Confedilizia parlano di incrementi fiscali del 157% rispetto al 2011, per i canoni concordati si arriva fino ad aumenti mostruosi del 291%
Ma le gabelle del passato, si potrebbe obiettare, servono solo a suscitare forti perplessità sulle buone intenzioni, non ad invalidare una promessa rivolta al futuro, che è esplicitamente proiettata sul triennio 2016-2018 per una somma che gli spin doctor del premier hanno ipotizzato addirittura di 45 miliardi di euro.

I NUMERI DEL DEF
Per saggiare la concretezza del progetto di Renzi è allora più corretto ed efficace affidarsi ai numeri ufficiali relativi ai prossimi anni, messi nero su bianco dallo stesso governo e dal suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nell’ultimo Documento di economia e finanza licenziato poche settimane fa, lo scorso aprile.
Alla voce maggiori entrate le cifre sono da capogiro. Per il 2015 sono 12,3 miliardi, che salgono a 28,1 nel 2016, a 34,5 nel 2017 fino a 34,9 nel 2018. Anche togliendo le minori entrate, che presumibilmente sono riduzioni di tasse, la musica cambia poco.
Nel 2016 il saldo, per le tasche dei contribuenti, è di 6,6 miliardi, che diventano 13,2 nel 2017 e 16,9 nel 2018. Se ci aggiungiamo anche i 19,2 miliardi del 2019 si arriva a circa 56 miliardi di euro di maggiori balzelli nel periodo. I numeri si riflettono, ovviamente, sulla pressione fiscale complessiva, recentemente definita «intollerabile» dalla Corte dei Conti, che dovrebbe balzare, secondo il Def, dal 43,5% del 2015 al 44,1% del 2016 e del 2017 fino al 44% del 2018.
A far lievitare enormemente il peso dei balzelli contribuiscono in larga misura le famigerate clausole di salvaguardia, disseminate come ordigni esplosivi da tutti i precedenti governi e da quello attuale per garantire il rispetto degli impegni di fronte all’Europa. Renzi e Padoan hanno assicurato che saranno tutte neutralizzate, ma dove si troveranno i soldi ancora non è chiaro. E non si tratta di bruscolini. Complessivamente ci sono in ballo circa 70 miliardi di euro da qui al 2018. Una cifra ben superiore ai 45 miliardi di tagli promessi dal premier. Solo nel 2016 le clausole, che se non sterilizzate si trasformano in automatici aumenti dell’Iva e delle accise, valgono 16 miliardi di euro (3,2 ereditati da Enrico Letta e 12,8 piazzati dallo stesso Renzi). Nel 2017 il conto sale a 25,5 e arriva poi a 28,5 nel 2018.

CONTO DA 24 MILIARDI
Limitando il ragionamento al prossimo anno la strada segnata dalle promesse di Renzi sembra quantomeno poco agevole. Oltre ai 16 miliardi delle clausole sono già sul piatto circa 2 miliardi per la flessibilità in uscita sulle pensioni, 1 miliardo per il rinnovo dei contratti pubblici, 700 milioni per la questione del reverse charge bocciato dalla Ue e altri 500 milioni per la rivalutazione delle pensioni imposta dalla Corte costituzionale. A questo si devono aggiungere adesso altri 4 miliardi: 3,5 per la Tasi sulla prima casa e 500 euro tra Imu agricola e imbullonati. In tutto fanno più di 24 miliardi per cui l’unica copertura allo stato dichiarata, ma tutta sulla carta, sono i 10 miliardi di spending review.

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