Nel Nord Est tira aria di bufera. E il rischio che anche Pop Vicenza e Veneto banca alla fine abbiano bisogno dei soldi dei contribuenti per restare a galla diventa ogni giorno più concreto. Ma al Senato nessuno, a partire dalla maggioranza di governo, sembra avere intenzione di inchiodare gli istituti alle proprie responsabilità, scoperchiando il sistema dei prestiti facili che ha portato al crac o mettendo un tetto alle laute prebende dei manager.
Gli emendamenti al «salva banche» presentati dalle opposizioni per consentire la pubblicazione delle liste dei grandi debitori insolventi e sforbiciare gli stipendi negli istituti puntellati dal denaro pubblico sono sul tavolo della commissione Finanze di Palazzo Madama dalla scorsa settimana. Tra rinvii, accantonamenti e giri di valzer sulle coperture per l’educazione finanzaria (su cui il presidente piddino della commissione Mauro Maria Marino continua ad insistere), però, il tempo per l’esame delle proposte e quasi scaduto. Il decreto deve arrivare in aula domani. E c’è chi, come il M5S, già parla di una possibile blindatura del testo con «l’ennesima fiducia». Anche perché nessuno ha ancora capito quali siano gli emendamenti graditi al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e se arriveranno proposte governative. L’unica modifica (presentata dal Pd) su cui finora c’è l’accordo, e il parere favorevole della Ragioneria dello Stato e della commissione Bilancio, riguarda la possibilità per le banche cooperative di trasformare le imposte anticipate qualificate, le cosiddette Dta, in crediti d’imposta. Lo stock al 31 dicembre 2016 è di circa 6,28 miliardi.
Il piano è chiaro: affossare definitivamente la lista dei bidonisti non solo di Mps, ma di tutte le altre banche che si apprestano a salire sulla giostra degli aiuti di Stato. Già, perché l’ipotesi che Siena non resti un caso isolato è tutt’altro che peregrina. Ieri tra Roma e Milano si sono tenuti in contemporanea i due cda di Bpvi e Veneto banca in cui l’ad Fabrizio Viola ha illustrato il piano di fusione che sarà presentato già oggi alla Bce. Il patto del silenzio imposto agli amministratori è stato rotto solo per far trapelare che il fabbisogno di capitale è «significativamente inferiore» ai 5,7 miliardi circolati sulla stampa. Anche se l’asticella si fermasse a 3-3,5 miliardi, però, l’operazione sarà assai complicata. L’acquisizione è già costata al fondo Atlante 3,5 miliardi di euro (compreso un miliardo già messo sul tavolo per il futuro aumento). E considerando la dotazione iniziale di 4,2 miliardi, si capisce bene che di soldi in cassa non ne sono rimasti molti.
Molte preoccupazioni ha poi destato la svalutazione delle quote operata un paio di giorni fa da Unicredit. Ieri il veicolo gestito dalla Quaestio sgr di Alessandro Penati ha chiarito che il valore del fondo, non trattandosi di asset quotati, è quello di carico, ovvero 3,48 miliardi. Cifra che non torna con quella calcolata dal valutatore indipendente Deloitte Financial Advisory. Il quale, pur ammettendo «la significativa incertezza» del giudizio, ritiene che le quote si siano già svalutate, rispetto allo scorso anno, del 24%. In altre parole, proprio a causa dell’andamento delle due banche, il fondo avrebbe già bruciato 850 milioni, portando il suo valore netto a 2,63 miliardi.
In queste condizioni, ricapitalizzare gli istituti e liberarsi degli oltre 8 miliardi di crediti deteriorati non sarà agevole. Non è un caso che ieri, stando alle indiscrezioni, Atlante avrebbe fatto sapere di voler aspettare la definizione del decreto salva banche per valutare meglio l’impatto del suo investimento nel caso di un eventuale ingresso dello Stato nel capitale come azionista di minoranza.
In questo scenario, si fa sempre più incerto il destino dei risparmiatori che hanno investito in obbligazioni subordinate delle due banche. I rendimenti saliti alle stelle stanno alimentando i sospetti di una possibile conversione in stile Mps per tentare di portare a termine l’aumento. Complessivamente le due banche hanno circa 1,25 miliardi di titoli in circolazione, di cui 284 milioni in tasca a piccoli risparmiatori.
© Libero