venerdì 15 maggio 2015

I tecnici limitano le rivalutazioni: il governo rischia la stangata Ue

Lunedì, ha assicurato il titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan, da Tiblisi, il dossier sarà sul tavolo del Consiglio dei ministri. Una prima valutazione da cui difficilmente uscirà la soluzione finale. Comunque vada, il governo ha già fatto capire che, per salvaguardare i conti pubblici, la restituzione totale di quanto dovuto ai pensionati in seguito alla bocciatura della Corte costituzionale del blocco della perequazione non è tra le opzioni percorribili. In questo prospettiva il conteggio fatto ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio sembrerebbe un inutile esercizio di stile.

Secondo il Rapporto sulla programmazione di bilancio 2015, per gli assegni pari a 3,5 volte il minimo gli arretrati ammonterebbero a circa 3mila euro. E a partire dal 2015 la pensione sarebbe maggiorata di circa 1.230 euro l’anno. Per gli assegni superiori a 4,5 volte il minimo gli arretrati ammonterebbero a 3.789 euro complessivi, a cui si aggiungerebbero dal 2015 1.547 euro l’anno. E così via fino a 7.000 euro per le pensioni sopra 9,3 volte (e un aumento a regime di 2.831 euro).
Questo sarebbe il frutto di quello che l’Upb definisce lo «scenario peggiore». Ovvero la piena applicazione della sentenza della Corte. Subito dopo, però, i tecnici del Parlamento ci spiegano anche che rispettare alla lettera il verdetto sarebbe sia ingiusto sia drammatico per le finanze pubbliche. Sulla prima questione il ragionamento ruota intorno all’aliquota Irpef sostitutiva con cui sarebbero tassati gli adeguamenti. Non quella marginale (circa 30%) che i pensionati avrebbero pagato all’epoca, ma quella media (circa il 19%) prevista per i pagamenti arretrati. Il risultato, si legge, è che se un pensionato ha perso 2.100 euro di potere d’acquisto, la restituzione totale gli farebbe recuperare circa 2.400 euro. Più, quindi, del dovuto.

Se la motivazione non fosse sufficiente a giustificare la sforbiciata dei rimborsi, l’Ufficio parlamentare di bilancio si lancia in una dettagliata stima delle conseguenze del pagamento sui conti pubblici. I tecnici si riservano di apprendere le cifre reali che verranno messe in campo e non azzardano previsioni sullo stock di risarcimenti. Ma alcune valutazioni sono già possibili. Se il rimborso superasse lo 0,5% del pil (circa 8 miliardi), ad esempio, l’Italia quest’anno sforerebbe il 3% previsto dal Patto di stabilità che aprirebbe la strada ad una procedura per disavanzo eccessivo e «potrebbe anche pregiudicare l’utilizzazione della clausola per le riforme strutturali». Negli anni successivi, poi, si verificherebbe una «riduzione dello spazio a disposizione per la disattivazione dell’aumento delle aliquote Iva e delle altre clausole di salvaguardia».
Quanto alla regola della spesa, anch’essa imposta dalla Ue, «le implicazioni della sentenza sul 2015 potrebbero pregiudicare in modo significativo il quadro del Def». Anche perché questo vincolo non tiene conto «né del carattere temporaneo del pagamento degli arretrati né dell’aumento automatico delle entrate che si avrebbe come conseguenza delle più elevate prestazioni pensionistiche». Il suo rispetto risulta, quindi, «relativamente più gravoso».

Dal dibattito sull’opportunità di disattendere parzialmente la sentenza ha cercato ieri di tirarsi fuori Sergio Mattarella. In Italia «c’è libertà di opinione e di pensiero», si è limitato a dire il capo dello Stato rispetto a chi critica il verdetto. Ma nella maggioranza nessuno ha dubbi sulla posizione del Quirinale. Il dettato costituzionale non può essere tradito. Per questo i tecnici di Via XX Settembre e di Palazzo Chigi sono a lavoro su una soluzione che permetta di rispettare la sentenza minimizzando l’impatto sui conti. Tra le varie ipotesi si sta ragionando anche su mini-rimborsi differenziati per fasce di reddito che limitino il totale dell’operazione a 2,5-3 miliardi. Per le coperture sembra ormai certo che si userà il «tesoretto» di 1,6 miliardi e altre risorse che dovrebbero arrivare dal rientro dei capitali all’estero. Emtrambe le voci, però, sono basate su valori previsionali. Il che significa, inutile dirlo, che ogni mossa sulle pensioni richiederà l’ennesima clausola di salvaguardia a carico dei contribuenti.

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