domenica 12 aprile 2015

Cinque punti di Pil a rischio senza ripresa o tagli di spesa

«Non ci sono tasse nuove, anzi è finito il tempo delle tasse da aumentare». Questa la solenne promessa di Matteo Renzi durante la conferenza stampa di venerdi sul Documento di economia e finanza. In effetti, di nuove tasse nel Def non si parla. Ci sono, però, quelle vecchie. E il conto è salatissimo. Euro più euro meno si tratta di 76,7 miliardi di ulteriori balzelli che pioveranno sulla testa degli italiani da qui al 2018. Si tratta di imposte ancora da incassare, ma già contabilizzate nel bilancio dello Stato attraverso il meccanismo infernale delle clausole di salvaguardia.

Nel documento varato dal governo c’è scritto nero su bianco che l’obiettivo è quello di disinnescare tutte le tagliole previste per il 2016. E che si cercherà di fare lo stesso successivamente. Ma accanto alle buone intenzioni, ci sono anche i numeri delle tabelle programmatiche a legislazione vigente. Gli unici a cui, in attesa della prossima legge di stabilità, le autorità contabili nazionali e internazionali possono fare riferimento. Il saldo delle entrate è cristallino. Nel 2016 la variazione netta prevede un incremento di 6,6 miliardi, che sale a 13,2 nel 2017, a 17 nel 2018 e a 19,2 nel 2019. Il totale, secondo quanto riportato nel Def, fa la bellezza di 56,1 miliardi come differenza tra maggiori e minori entrate. Il dato sembrerebbe in contraddizione con le percentuali sulla pressione fiscale inserite all’ultimo momento da Renzi nel documento, secondo cui il peso delle tasse scenderebbe già quest’anno al 42,9%, per poi ridursi al 42,6% nel 2016 e sotto il 42% nel 2008. Ma questi sono solo i risultati del ritocchino fatto, in barba ai principi contabili, dal premier, che oltre alle clausole ha tolto dal conteggio anche il bonus di 80 euro. In realtà, a legislazione vigente fino al 2019 la pressione fiscale rimane sempre superiore al 43,5% del pil (con picchi del 44,1%) registrato lo scorso anno. A far esplodere il prelievo sono proprio le clausole «sbianchettate» dal premier. Una stangata consistente è quella lasciata in eredità dal governo Letta per coprire in anticipo il fallimento della spending review. Una parte delle maggiori entrate da recuperare tra aumenti delle accise e tagli alle detrazioni (che stando  al Def arriveranno comunque per 2,4 miliardi) è stato sterilizzato da Renzi (3 miliardi sul 2015 e altri 3,7 l’anno a partire dal 2016). Ma il grosso è ancora sul tavolo: 3,2 miliardi per il prossimo anno e 6,3  sia per il 2017 sia per il 2018. In tutto 15,8 miliardi.

Il fardello di Renzi
Il fardello più robusto è quello piazzato dallo stesso premier per convincere l’Europa della capacità dell’Italia di raggiungere gli obiettivi previsti dal patto di stabilità: una serie di aumenti a raffica dell’Iva e delle accise che scatteranno automaticamente nei prossimi anni per far quadrare i conti ad ogni costo. Si tratta di 12,8 miliardi per il 2016, 19,2 per il 2017 e 22 per il 2018. Il totale fa 54 miliardi.
Ma non è tutto. Ben nascosta nell’ultima legge di stabilità, infatti, l’esecutivo ha inserito un’altra clausola di salvaguardia a scoppio ravvicinato. La trappola scatterà il prossimo 30 giugno. Praticamente domani. Per quella data il governo dovrà avere la certezza di poter incassare 1,716 miliardi di gettito aggiuntivo nel 2015, altrimenti ci sarà un aumento delle accise sui carburanti in per un valore corrispondente da quest’anno in poi.
A garantire l’incremento fiscale dovrebbero essere le imprese attraverso il giochino dell’anticipo dell’Iva messo in campo dal governo con la scusa di combattere l’evasione. Dall’allargamento del reverse charge alla grande distribuzione dovrebbero arrivare 728 milioni l’anno, dallo split payment 988 milioni. Il problema è che le modifiche al regime dell’Iva devono passare al vaglio dall’Europa. E la deroga potrebbe anche non essere concessa. Di qui la decisione del governo di fare a modo suo. Il prelievo aggiuntivo è stato introdotto da subito, provocando anche l’irritazione della Ue che dovrebbe autorizzare preventivamente, se poi la norma sarà bocciata, scatterà la clausola. Resta da capire cosa succederà se, come è prevedibile, il verdetto di Bruxelles non arriverà prima del 30 giugno.

Tagliole a sorpresa
Non contenti dei 76,7 miliardi di tasse già ipotecate, l’ennesima salvaguardia è spuntata pure nel decreto legislativo del jobs act. La sorpresa, che secondo il Sole24Ore è degna di uno sketch di Crozza, è contenuta nel testo finalmente arrivato in Parlamento per i pareri dopo un lungo braccio di ferro con la Ragioneria legato proprio alla copertura. Alla fine la situazione si è sbloccata prevedendo che in caso di risorse insufficienti per la decontribuzione triennale dei nuovi contratti a tutele crescenti saranno gli imprenditori a pagare, con un bel contributo di solidarietà. Un’enormita che il governo si è subito rimangiato. «Nel testo definitivo», ha assicurato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, «la clausola non ci sarà».

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