giovedì 5 dicembre 2019

Sberla Ue all'Italia: "Il salva Stati non cambia"

Altro che rinegoziazione. «Non vediamo la necessità di cambiare il testo o di una riapertura della discussione sui contenuti, ora stiamo affrontando questioni tecniche, ma l'accordo politico sul Mes è stato raggiunto». È stata questa la frase sbattuta dal presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno, in faccia all’Italia e al povero ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che si era presentato a Bruxelles con la missione impossibile di portare a casa qualche piccolo, anche formale, trofeo per smorzare le tensioni nella maggioranza.

L’unica, timida concessione che l’Europa potrebbe fare, fermo restando che quel testo non si tocca, è quella di spostare a gennaio la formalizzazione della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, congelando al contempo il via libera alla discussione politica sulla road map per arrivare a uno schema europeo di garanzia sui depositi. In questo ambito, si sta ancora valutando la possibilità di allegare al trattato del Mes l’annesso che riguarda le Cacs, le famose clausole di azione collettiva «single limb» che dovrebbero facilitare la ristrutturazione del debito. Si tratta delle regole di cui parlava il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, quando ha annunciato che una loro modifica avrebbe spinto le banche a non acquistare più titoli di Stato italiano.
Poca roba dal punto di vista politico, considerato che era stabilito fin dall’inizio che la firma finale della riforma avvenisse nel febbraio 2020, che potrebbe però essere sufficiente a concedere al governo quella dose di ossigeno necessaria ad approvare la manovra di bilancio a cui il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha fatto da tempo capire di tenere più di ogni altra cosa.

SCENARIO IMMUTATO
Lo scenario complessivo sul Fondo salva stati, insomma, resta immutato. Il testo è chiuso e non si cambia. Ma l’ipotesi di congelare tutto fino alla fase finale della formalizzazione dell’intesa potrebbe scongiurare l’eventualità di un redde rationem tra M5S e Pd alla vigilia del Consiglio europeo del 12 dicembre, che non sarà più il summit decisivo dove l’Italia dovrà prendere una posizione a favore o contro il salva stati.
«C’è una logica di pacchetto, rimaniamo vincolati a questa prospettiva. Io ancora non ho firmato nulla, tantomeno una cambiale in bianco», ha ribadito per l’ennesima volta il premier Giuseppe Conte dal vertice Nato a Londra, tentando di prendere tempo.
A mettere fretta, però, oltre alla Germania, c’è anche la Francia, che con il ministro Bruno Le Maire non solo smentisce un ipotetico asse con l’Italia, ma anzi spinge affinché la firma arrivi il prima possibile e sia ratificata in fretta da tutti gli Stati. Posizione paradossalmente appoggiata anche dal nostro Paolo Gentiloni, al suo primo eurogruppo come commissario Ue agli Affari economici, secondo cui il Mes non va ritardato.
Non aiuta neanche la posizione di Ignazio Visco. Il governatore di Bankitalia, che a dire il vero fu il primo a lanciare l’allarme, ora non passa giorno senza dichiarare, come ha fatto ieri in audizione alla Camera, «che la riforma apporta modifiche limitate al Fondo e non penalizza l’Italia, che dovrebbe invece preoccuparsi di consolidare la riduzione del suo debito pubblico».
Il governatore si è addirittura spinto a giustificare «limiti di concentrazione di titoli detenuti dalle banche, non differenziati tra debitori sovrani e in ogni caso con una franchigia iniziale sufficientemente elevata, solo se contestualmente l’area dell’euro deciderà di dotarsi del safe asset comune, senza il quale il processo di diversificazione dei portafogli delle banche non potrebbe svolgersi in modo ordinato». Tema caldissimo che potrebbe costringere le banche ad aggiornare tutti i requisiti patrimoniali per compensare la nuova attribuzione di rischiosità ai titoli di Stato detenuti.

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