lunedì 19 dicembre 2016

De Nicola: "Mediaset sa difendersi da sola. Ma su Mps bisogna intervenire"

Iniziamo con due domande secche: lo Stato deve salvare Mps?
«Mi sembra inevitabile se non ci riesce il mercato (ma ancora non lo escluderei). Consideriamolo l’ultimo atto della sofferta transizione post introduzione del bail in in Italia».

Il governo deve difendere Mediaset dall’invasore straniero?
«Gli attuali azionisti di maggioranza di Mediaset si difendono benissimo da soli».
Sui confini e i limiti dell’intervento pubblico Alessandro De Nicola ha le idee chiare. Avvocato di lungo corso specializzato in diritto commerciale e societario, senior partner degli uffici italiani dello Studio Orrick, docente alla  Bocconi, consigliere indipendente in Finmeccanica, componente di numerosi organismi di vigilanza,  editorialista, ma l’incarico con cui De Nicola ama presentarsi è quello di presidente della Adam Smith Society, l’associazione   che si dedica allo studio e alla diffusione dei principi dell’economia di mercato, della concorrenza e della libera iniziativa. Il che lascia pochi dubbi sulla sua scelta tra la «mano invisibile» del mercato e quella della burocrazia pubblica.

È sempre sbagliato che lo Stato ficchi il naso nell’economia o ci sono eccezioni che giustificano l'interferenza?
«Diciamo che lo Stato ha l’onere della prova di dimostrare in modo inequivocabile l’utilità del suo intervento. Inoltre un conto è lo Stato regolatore e quindi dispensatore di giustizia, su cui anche un teorico dello Stato minimo come Nozick converrebbe e un altro uno Stato che si intromette nei meccanismi di mercato o peggio fa l’imprenditore che è invece da guardare con il massimo scetticismo».

L’attualità recente ci pone il problema delle banche: tutela della concorrenza, stabilità del sistema, difesa dei consumatori. Come si conciliano questi tre fattori?
«La tutela della concorrenza è fattore di stabilità e di difesa dei consumatori in quanto la competizione porta efficienza (stabilità) e trasparenza(consumatori). Non vedo contraddizioni, basta stabilire l'ordine di priorità».

Le autorità internazionali sembrano ormai condividere l'idea che ci siano banche troppo grandi per fallire. È un principio corretto?
«No, il principio è sbagliatissimo. Le circostanze hanno creato un tale timore soprattutto dopo il fallimento di Lehman. Bisogna creare le condizioni di non avere le banche too big e, ex ante, che siano soggette a meccanismi di trasparenza e governance tali da non correre il rischio di creare un terremoto sistemico».

Difficile non avere le banche too big quando tutte i regolatori e i legislatori spingono per il consolidamento e le fusioni. Ma sarebbero così gravi le conseguenze del fallimento di una grande banca ?
«Oggi le conseguenze in Italia sarebbero molto gravi, nessuno è preparato ad affrontarle, si deve fare in modo che la prossima crisi non colga impreparati, in primis ripristinando i meccanismi di mercato e la trasparenza. Inoltre un conto è fondere piccoli istituti senza massa critica, conoscenze adeguate, controlli moderni, un altro creare dei super colossi. In ogni caso i regolatori si dovrebbero limitare a non intervenire se non in caso di problemi antitrust (o di rispetto della legge, non farei comprare Intesa al cartello di Medellín o al fiduciary trust di Messina Denaro)».

Quindi il libero mercato vale solo per le banche piccole?
«Se si continua con il totem di cui sopra si rischia di avere un mercato super drogato, con i grandi che si prendono i rischi tranquillamente (il famoso azzardo morale) e i piccoli che non possono competere e falliscono».

L’Europa ha puntellato con ingenti finanziamenti pubblici le proprie banche negli anni della crisi,  poi ci ha fatto la morale quando si è trattato di offrire un sostegno alle quattro banche in default: doppiopesismo o ammissione tardiva dell'errore?
«Negligenza e sfortuna nostra. Sfortuna perché quando potevamo intervenire avevamo già un debito pubblico enorme e uno spread alle stelle. Negligenza perché le nostre banche erano sgovernate, non abbiamo adeguatamente preparato nessuno al passaggio al regime di bail in e qualche colpa se la devono prendere anche i regolatori».

Cosa pensa del bail in?
«Va nella giusta direzione ma non sono d'accordo che anche i correntisti sopra i 100.000 euro debbano rimetterci. I soldi depositati sono loro, non in prestito, né tantomeno capitale di rischio. Se gli stessi soldi fossero in una cassetta di sicurezza sarebbero salvi».

Non crede che anche la rigidità della Bce nel pretendere frettolose pulizie dei bilanci e rapidi rafforzamenti patrimoniali sia un'indebita interferenza pubblica nelle dinamiche del mercato?
«La Bce si limita a far rispettare la legge nell'ambito della sua discrezionalità . La rigidità che a volte dimostra deriva da una certa sfiducia nei confronti dell affidabilità dei conti delle banche e dei banchieri italiani nel mantenere ciò che promettono. Purtroppo quando la notte è buia tutti i gatti sono bigi, anche quelli candidi. Certo, bisogna evitare che i regolatori si mettano anche gli occhiali da sole per acquisire più carisma e sintomatico mistero...»

Passiamo all'industria: la stagione delle privatizzazioni iniziata nel 1992 con il famoso vertice sul Britannia ha fatto bene o male all’Italia?
«Ha fatto bene, senza dubbio, sia alle casse dello Stato che al mercato. Non si è fatto tutto quel che si poteva e doveva sia in termini di privatizzazioni che di liberalizzazioni? Siempre se puede mas, diceva il compagno Fidel».

Ha ancora senso oggi parlare di aziende strategiche per il Paese il cui controllo deve restare in mano allo Stato?
«Vi sono industrie che sono necessariamente regolamentate, non mi vedo un’industria della difesa finire sotto il controllo della cassaforte di famiglia di Putin, ma questo non vuol dire che la proprietà debba continuare a rimanere pubblica».

Lactalis-Parmalat, Abertis-Autostrade, AbnAmro-Antonveneta. Da che parte si è schierato quando la politica e l'opinione pubblica si battevano contro gli invasori?
«Sempre a favore della libera circolazione dei capitali. È come tifare per l’Inter».

Perché su altri mille marchi finiti in mano straniera, squadre di calcio comprese, nessuno ha nulla da ridire?
«Per l’Inter perché ci si aggrappa a qualsiasi speranza ormai. Rassegnati a sentire persino Fozza Inda».

Negli anni delle Opa straniere ostili furono introdotte numerose norme anti scalata. Ritiene siano strumenti legittimi o lesivi della libera concorrenza?
«Lesivi: le scalate ostili sono i disinfettanti che eliminano le incrostazioni causate da un management inefficiente».

È più discutibile lasciare Mediaset ai francesi o accogliere con grandi sorrisi i fondi sovrani del Medio Oriente nei veicoli strategici con cui la controllata del Tesoro Cdp sostiene le politiche industriali del nostro Paese?
«Credo che la risposta sia implicita in quanto le ho detto finora… Chi porta denaro e non rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale del paese è il benvenuto».

Ancora, è più giusto lasciare gli stranieri fuori dalla porta o permettere a Comuni e Regioni di gestire in house tutti i servizi pubblici locali con gli sprechi, i disservizi e le inefficienze che conosciamo?
«Beh, le piace ricevere risposte facili…»

Il paradosso della tolleranza di Popper ci insegna che non si può essere tolleranti con gli intolleranti. I francesi fanno di tutto per tenersi stretti i loro gioielli. Dobbiamo essere liberisti con i protezionisti?
«Questa è una domanda molto arguta e merita una risposta completa. Allora se c’è Monsieur Dupont che compra e il Signor Rossi che vende, vuol dire che Rossi ha trovato il prezzo conveniente e che pensa di poter utilizzare quel denaro al meglio. Se con il gruzzoletto che ha appena ricavato va da Monsieur de Lapalisse per comprargli la sua società, quest’ultimo trova la cosa conveniente ma l’intendente Colbert blocca la vendita, tanto peggio per De Lapalisse (e Colbert). Rossi telefonerà a Muller, Smith, Wang, Mitsubishi, Pereira, Strogoff o Gonzalez fino a che troverà un’occasione altrettanto buona. L’Italia comunque ci ha guadagnato».

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