Dopo l’affondo contro la Boeing e il suo Air Force One («i costi sono fuori controllo, oltre 4 miliardi. Cancellare l’ordine»), Donald Trump sposta il tiro sulla Lockheed Martin, che oltre a lavorare al nuovo elicottero presidenziale è anche capofila, con il suo F-35 Lightning II, del più grande progetto della Difesa Usa, il programma Joint Strike Fighter (Jsf). Un imponente piano di produzione (costato circa 400 miliardi di dollari) di cacciabo multiruolo di quinta generazione a cui partecipano anche Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca.
La bordata del neo presidente arriva, ancora una volta, via Twitter. «I costi degli F-35 sono fuori controllo. Miliardi di dollari possono e saranno risparmiati dopo il 20 gennaio», si legge sul social media proprio mentre il capo del Pentagono, Ashton Carte, consegnava in Israele i primi due super F-35 «invisibili». Troppo presto per decifrare le intenzioni di Trump. Secondo gli esperti del settore, però, la sortita del tycoon è tutt’altro che improvvisata e nasconde il fermento che c’è negli Usa sui caccia di sesta generazione, di cui sono stati già prodotti diversi prototipi, anche dalla stessa Lockheed Martin, sulla falsariga dell’F-22 Raptor.
Il colosso Usa ha tentato di gettare acqua sul fuoco. «Diamo il benvenuto», recita una nota ufficiale, «all’opportunità di potere rispondere alle domande del presidente eletto sul programma degli F-35, un programma di grande valore». Secondo la Lockheed, le proiezioni parlano di un prezzo che al 2019-2020 dovrebbe scendere fino ad 85 milioni di dollari, al di sotto anche dei caccia di quarta generazione. Rassicurazioni che non hanno convinto più di tanto i mercati. Il titolo è crollato a Wall Street di oltre il 4%, bruciando circa 4 miliardi di dollari. Una briciola se paragonata ai 1.500 miliardi di dollari (100 milioni ad aereo) che da qui al 2070 dovrebbero finire nelle casse del gruppo grazie al contratto firmato col Pentagono.
Il contraccolpo, seppure in forma lieve, è arrivato anche in Italia, che è il secondo più importante partner internazionale del programma dopo il Regno Unito, con un contributo del 4,1% alle fasi di progettazione e sviluppo dell’F-35 e un centro di produzione autonomo (a Cameri in provincia di Novara, che lo scorso febbraio ha visto decollare il primo jet «italiano»), che si occuperà anche della manutenzione di tutti i velivoli destinati all’Europa. Da Leonardo Finmeccanica, che segue il progetto con Alenia Aermacchi, fanno sapere che l’impatto degli F-35 sui ricavi del gruppo è «molto limitato». Anche il titolo a Piazza Affari non ha subito grandi scossoni, limitandosi a lasciare sul terreno lo 0,38%, seppure in controtendenza con il Ftse Mib (+0,42%).
Ma non è escluso che nei giorni successivi la musica non cambi. Il blitz di Trump ha riacceso i riflettori anche sul programma di acquisti della difesa italiana, che da anni prosegue il suo cammino tra mille polemiche. Polemiche che hanno portato nel 2012, sotto il governo Monti, ad una riduzione degli aerei da 131 a 90. La questione è riesplosa nel 2014, con Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Il parlamento ha votato a maggioranza una ulteriore riduzione dei costi del 50%. Ma il governo, complice, secondo le opposizioni, un pressing serrato di Barack Obama, ha deciso di proseguire sulla sua strada, confermando la l’acquisto di 90 velivoli per una spesa di 12 miliardi di euro in 30 anni. I ripensamenti non sono all’ordine del giorno. Qualche giorno fa il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, confermata nell’esecutivo Gentiloni, ha spiegato chenon si torna indietro. Il governo ha già dato il via libera per 4 velivoli e altri 6 sono in dirittura di arrivo. Se Trump dovesse far saltare il banco negli Usa, però, anche gli altri Paesi saranno costretti a rinegoziare l’intero programma. Costi compresi.
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