Una pressione fiscale «intollerabile». Va dritta al punto la Corte dei Conti che ieri, nella rituale Relazione sul rendiconto generale dello Stato, ha strigliato il governo praticamente su tutto. Senza appello la bocciatura delle politiche su tasse e balzelli. Terreno su cui, secondo il presidente di Coordinamento delle sezioni riunite Enrica Laterza, «prioritaria appare la necessità di un intervento di segno opposto volto a restituire capacità di spesa a famiglie e imprese».
Durissimo il giudizio sulle decisioni prese da Palazzo Chigi negli ultimi anni quando, «in una fase di emergenza economico-finanziaria anche la politica fiscale è stata piegata ad obiettivi immediati di gettito per garantire gli equilibri della finanza pubblica». Il risultato è stato catastrofico. Questo «affanno alla ricerca di risultati», hanno spiegato i magistrati contabili, «si è tradotto tra il 2008 e il 2014 nell’adozione di oltre 700 misure di intervento tra aggravi e sgravi del prelievo». Quest’ultimi, però, non sono stati evidentemente così numerosi. Oltre a sacrificare «l’esigenza di una ragionata revisione strutturale del sistema fiscale», si è infatti arrivati ad una pressione delle tasse al 43,5% del pil, con «un divario di 1,7 punti di prodotto rispetto alla media dei Paesi dell’area euro». Un livello, a giudizio della Corte, intollerabile che non potrà sopportare «ulteriori aumenti».
Dopo aver certificato il disastro sul lato delle entrate, la Corte è poi passata ad occuparsi dei tagli, è anche qui le cose non sono andate un granché bene. Le analisi della Relazione, si legge nel documento, «confermano le difficoltà di realizzare pienamente il programma di spending review». Difficoltà che derivano principalmente dalla «forte rigidità della componente pensionistica della spesa unità a margini sempre più stretti di risparmi potenziali nelle maggiori altre categorie di spesa finale come i redditi e i consumi intermedi, già ripetutamente colpiti». Quanto al taglio dei costi della politica, da qualche anno, ha detto il procuratore generale Martino Colella, «si è dato l’avvio a vari provvedimenti legislativi». Si tratta, però, di misure che «vanno concretamente attuate e incrementate in areee in cui non vengano in rilievo i cosiddetti costi della democrazia, ma solo duplicazioni, appesantimenti di strutture burocratiche o privilegi ingiustificati». A partire dai vitalizi, la cui spesa di 222 milioni di euro «è in aumento» ed è «superiore rispetto a quella sostenuta nei Paesi paragonabili». Ma nel mirino ci sono anche gli enti pubblici, 320 soggetti che costano 20 miliardi l’anno, con stipendi per il personale «sensibilmente superiori a quelli dei ministeri».
Sui conti pubblici pesa poi l’incognita, sempre minimizzata dal ministero dell’Economia, dei contratti derivati sul debito pubblico, che valgono 160 miliardi e vanno attentamente monitorati per «i rischi che tali tipologie contrattuali possono comportare sugli equilibri di bilancio».
La sostanza è che «le condizioni di sostenibilità di lungo periodo della finanza pubblica richiedono al nostro Paese la costruzione di una traiettoria macroeconomica ambiziosa caratterizzata da saggi di crescita e della produttività non inferiori all’1,5% annuo». Un ritmo da cui, al di la dell’ottimismo renziano, secondo la Corte siamo ancora ben lontani.
Una situazione confermata in tempo reale da Vincenzo Visco, intervenuto sempre ieri in un convegno alla Farnesina. «Il problema», ha detto il governatore di Bankitalia, «è che siamo fermi. Solo alla fine di quest’anno l’Europa tornerà ai livelli produttivi del 2008, ma l’Italia è ancora lontana e serviranno diversi anni per recuperare quel livello».
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