Bruxelles ha già fatto trapelare che potrebbe concedere all’Italia l’ennesimo sconticino, escludendo le spese per i salvataggi bancari dai saldi di finanza pubblica.
Ma la sostanza cambia poco. Il ministro dell’Economia uscente, Pier Carlo Padoan, ci aveva detto che si trattava di bruscolini, per di più caricati solo sul debito, e invece sono piovuti macigni sul deficit, che ridurranno sensibilmente gli spazi di manovra a disposizione del nuovo governo per riforme e tagli di imposte.
Ricalcolando l’impatto, così come imposto dall’Eurostat, dei costi sostenuti dallo Stato per evitare i crac bancari, i conti pubblici risultano notevolmente peggiorati. A pesare ci sono non solo i soldi usati per Veneto Banca e Popolare di Vicenza, 4,7 miliardi di deficit e 11,2 miliardi debito pubblico, ma anche quelli utilizzati per Mps, saliti dagli 1,1 inizialmente stimati a 1,6 miliardi (senza contare i 5,4 sborsati per acquisire il 68% del capitale su cui ci sono già perdite potenziali di 3,5 miliardi).
Complessivamente l’indebitamento aggiuntivo è di 6,3 miliardi. Somma che, secondo quanto certificato ieri dall’Istat, ha fatto schizzare il rapporto deficit/pil dall’1,9 previsto a marzo al 2,3%. L’asticella è sotto il 2,5% registrato nel 2016, ma sopra il 2,1% stimato dal governo per il 2017, valore su cui è stata impostata la legge di stabilità per il 2018.
Ed è qui che sorgono i problemi. La Commissione europea, infatti, ha già rintenuto insufficienti le correzioni del deficit strutturale inserite nella finanziaria, sostenendo che rispetto ad uno 0,3% richiesto (al netto della flessibilità) l’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha manovrato solo sullo 0,1% del deficit.
Ieri da Bruxelles si sono limitati a «prendere atto» dei nuovi saldi, spiegando che la Commissione «valuterà la situazione di bilancio dell’Italia in maggio, sulla base dei dati finali di Eurostat e delle previsioni economiche di primavera». Nulla di più, nulla di meno. Indiscrezioni circolate ieri con insistenza avvalorano, comunque, la tesi che i costi sostenuti per supportare il settore finanziario, come stabilito nel 2013 dal commissario agli affari economici Olli Rehn, sono considerati una tantum e vengono perciò esclusi dal computo del saldo strutturale.
Questo non toglie che la coperta sia diventata più corta. La valanga degli aiuti bancari, infatti, non ha impattato solo sul deficit, ma anche sul debito, salito dal 131,6 stimato dal governo al 131,8%. E pure la pressione fiscale è stata ritoccata, dal 42,4 al 42,5%.
In altre parole, i conti del 2017 sono diventati assai simili a quelli del 2016, azzerando quel timido percorso virtuoso innescato da Padoan & C. In questo scenario, se l’Europa chiuderà un occhio sulle spese una tantum, difficilmente potrà essere altrettanto generosa sulle correzioni già chieste. Il che significa che prima dell’estate invece di programmare la flat tax o il reddito di cittadinanza, il nuovo esecutivo potrebbe essere costretto, volente o no, a mettere un’altra volta le mani nelle tasche dei contribuenti. Padoan si è arrabbiato quando qualcuno lo ha definito «avvelenatore di pozzi». Che abbia lasciato un bel po’ di buchi, però, è difficile da negare.
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