Altro che impatto soft. Quando la Bce, lo scorso marzo, ha ripresentato il suo «addendum» alle line guida sui crediti deteriorati, spiegando che le banche dovranno svalutare integralmente entro due anni i prestiti non garantiti ed entro sette quelli coperti da garanzie, qualcuno ha quasi festeggiato. Rispetto alla versione di fine anno, ha detto il presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, che è stato in prima fila nel contestare la severità delle nuove regole, «il testo sembra tenere conto delle nostre perplessità».
Certo, le norme non sono più vincolanti, gli istituti avranno tre anni di tempo per arrivare al 40% di copertura minima dei crediti non garantiti. Francofrorte terrà, inoltre, conto di situazione specifiche e valuterà con indulgenza le «inadempienza probabili».
GIUSTIZIA LUMACA
Resta il fatto che in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, per chiudere una procedura fallimentare occorro più di 7 anni, mentre 3 sono gli anni necessari per risolvere una controversia in un tribunale di prima istanza. Il che significa che i prestiti non restituiti dovranno essere conteggiati a bilancio come perdite e non ci sarà alcun margine temporale per provare a rientrare del credito.
LE RAPPRESAGLIE
Come ha spiegato la Banca d’Italia, i tempi stretti della svalutazione «potrebbe indurre le banche a preferire soluzioni di tipo liquidatorio delle imprese debitrici in temporanea difficoltà, ma solvibili, per rivalersi al più presto sulle garanzie, minimizzando i costi di breve periodo». La stessa Associazione bancaria, pur ammettendo che nel nuovo testo ci siano alcuni «miglioramenti», ha detto chiaramente che «più si rendono rigide le normative europee, più chi le deve applicare porrà in essere degli adempimenti di cui risentiranno le imprese in genere e soprattutto quelle piccole e medie».
La Bce ha valutato le conseguenze della sua decisione, soprattutto nei Paesi, come l’Italia, che hanno uno stock imponente di crediti marci e tempi della giustizia biblica? La risposta è no. Non è possibile farlo, perché le variabili sono troppe e l’analisi riguarda futuri prestiti, ha spiegato senza fare una piega il capo della Vigilanza della Bce, Danièle Nouy.
Gli analisti di Mediobanca, però, ci hanno provato lo stesso. E i risultati sono catastrofici. In un report ripreso ieri da MF, gli esperti di Piazzetta Cuccia sostengono che le nuove norme produrranno un incremento medio dei tassi di interesse dei prestiti alle imprese italiane di 30 punti base. Oltre un quinto in più rispetto ai valori degli ultimi mesi, che si sono attestati sull’1,35%.
PMI PENALIZZATE
Ai piccoli andrà anche peggio. «Il costo di finanziamento per le Pmi a rating inferiore», si legge, «probabilmente aumenterà di oltre il 20%, mentre le imprese più rischiose dovranno fare i conti con una interruzione del credito». In altre parole, i soldi saranno prestati solo a chi li ha già. Gli altri imprenditori, magari giovani, magari innovativi, pieni di idee, ma a corto di capitali, dovranno arrangiarsi. I più fortunati pagheranno il finanziamento più salato, gli altri resteranno del tutto a secco. Prospettiva nera non solo per loro, ma per tutta l’economia italiana, formata per il 90% da Pmi. Per avere un’idea di cosa potrà accadere basti pensare che nel 2017, anche senza la stretta della Bce, i prestiti alle aziende, secondo gli ultimi dati diffusi da Unimpresa, sono crollati di 37 miliardi (-6,34%). «Ci auguriamo che l’impatto non sia tale da incidere sulla ripresa in atto», è stato il commento, poco incoraggiante, di Confindustria.
La beffa è che le banche, invece, potrebbero addirittura avere dei benefici. Secondo Equita Sim, che prevede pure lei una possibile stretta sui prestiti a breve termine e un aumento dei costi dei finanziamenti, il complesso delle nuove norme «avrà un impatto leggermente positivo sugli istituti di credito».
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