giovedì 10 dicembre 2015

Scaricabarile di Bankitalia, Ue e governo

Dopo centinaia di migliaia di risparmiatori lasciati con le tasche vuote la saga del decreto salva banche si arricchisce anche di un clamoroso scontro frontale tra la Banca d’Italia e la Commissione europea. Dopo l’ondata di polemiche suscitate dal provvedimento adottato per salvare Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti, Via Nazionale è intervenuta ieri, davanti alla commissione Finanze della Camera, per spiegare che il progetto di far scendere in campo il Fondo Interbancario di Tutela dei depositi, che avrebbe evitato il massacro di molti risparmiatori, fu stoppato dalla Commissione Ue contro il suo volere.

Questa la versione del capo della Vigilanza, Carmelo Barbagallo: «L’intervento del Fondo, insieme alle risorse di altre banche, avrebbe consentito di porre i presupposti per il superamento delle crisi senza alcun sacrificio per i creditori delle quattro banche». Ciò non è stato possibile per «la preclusione» manifestata dalla Ue e si è fatta «la scelta meno cruenta». A stretto giro, però, è trapelato un documento di Bruxelles in cui si sottolinea, nero su bianco, che a metà novembre furono prospettate tre possibili soluzioni. La prima con capitali privati, la seconda con il Fondo di tutela e la terza con quello di Risoluzione. Fu l’Italia, si legge nel dossier, a decidere per quest’ultima opzione, con le conseguenze che tutti conosciamo. La Ue, a differenza, di Bankitalia e della stessa Associazione bancaria, sostiene che solo con i privati i risparmiatori si sarebbero potuti salvare.

Anche se fosse, le altre due strade non sono paragonabili. Nel caso del Fondo interbancario, che avrebbe garantito gli aumenti di capitale necessari a rimettere le banche sul mercato, gli azionisti avrebbero sicuramente pagato un prezzo elevato attraverso la svalutazione dei titoli. Ma gli obbligazionisti subordinati, a parte forse quelli di Banca Marche, dove il fabbisogno era più alto, se la sarebbero probabilmente cavata con meno perdite. Senza contare il minore contraccolpo sull’intero sistema, che in questi giorni sta ballando in Borsa come su un mare in tempesta, e nei prossimi mesi dovrà affrontare le conseguenze di un devastante calo di fiducia che peserà sugli attivi e costringerà inevitabilmente gli istituti a chiudere i rubinetti del credito. Le banche, da parte loro, avrebbero sicuramente sborsato meno. Malgrado gli aiutini fiscali, il Fondo interbancario si preparava a mettere sul piatto circa 2 miliardi di euro per tutte e 4 le banche. La scelta del Fondo di risoluzione, invece, ha comportato una spesa di 3,6 miliardi. I contribuenti, infine, si sarebbero risparmiati l’intervento della Cdp, che ha garantito 400 milioni di prestito ponte da parte di Intesa, Unicredit e Ubi.

A restare col cerino in mano, adesso, è il governo guidato da Matteo Renzi, che ha fortemente voluto il cervellotico e, a questo punto, inspiegabile intervento che ha prodotto la creazione di quattro bad bank piene di debiti e quattro good bank da rimettere in piedi. E che ora, resosi conto del disastro, sta cercando di mettere una pezza peggiore del buco, attraverso un fondo di sostegno per i risparmiatori che a Bruxelles, a prescindere dalle fantasiose definizioni di Padoan («aiuti umanitari»), continuano a vedere come un illegittimo aiuto di Stato.
La ciliegina sulla torta è il costo dei cda «snelli» che gestiranno le nuove banche: 600mila euro all’anno. Che moltiplicato per 4 fa 2,4 milioni. Al presidente Roberto Nicastro andrà uno stipendio complessivo di 400mila euro.

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