mercoledì 26 agosto 2015

Conti, Tfr e viaggi: Renzi ha già alzato le tasse

C’è chi giustamente, come Confedilizia, applaude all’ennesimo annuncio di Matteo Renzi sul taglio delle tasse. La promessa di cancellare Tasi e Imu per tutti resta comunque difficile da digerire dopo la spremitura fiscale a cui lo stesso premier ha sottoposto i contribuenti. Sempre Confedilizia, ad esempio, ci ricorda spesso che la tassazione sulla casa è passata dai 9,2 miliardi del 2011 ai circa 25 miliardi del 2014. E Renzi non si è  limitato ad ereditare, peraltro senza battere ciglio. I balzelli che portano la sua firma non sono né pochi, né trascurabili.

Solo per fare alcuni esempi nell’ultimo anno e mezzo di governo sono aumentate le accise su benzina e gasolio, le tariffe autostradali (1,5%), le multe, i contributi previdenziali di artigiani e commercianti, l’accise sulla birra (2a 2,7 a 3,04 euro per ettolitro), la tassazione delle rendite finanziarie (dal 20 al 26%), quella sui fondi pensione (dall’11,5 al 20%), quella sulla rivalutazione del Tfr (dall’11 al 17%), è diminuita la detrazione per le polizze vita e sono state tagliate quelle Irpef sopra i 55mila euro, è salita la tassa sui passaporti, è stata rimangiata e rimodulata la riduzione Irap varata lo scorso anno per le imprese ed è schizzata la Tari sui rifiuti. Le dichiarazioni fatte ai convegni, poi, male si incastrano con quelle formali e ufficiali scritte nel Def, dove si legge che di qui al 2019 le entrate tributarie e previdenziali saliranno dai 772,2 miliardi del 2014 a 881,2 miliardi, con un balzo di 104,01 miliardi, il 13,38% in più.

Alla luce di questi numeri resta anche da capire dove il premier troverà i soldi per tagliare le tasse e far quadrare i conti. I margini di manovra sono strettissimi, se non inesistenti. Le voci di spesa obbligatoria sono note. La più pesante riguarda la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia (Letta-Renzi) che insieme alla bocciatura europea del reverse charge (728 milioni) ammonta a circa 16,8 milardi. Poi ci sono da rimediare i pasticci sanzionati dalla Consulta: rinnovo dei contratti del pubblico impiego (0,5 miliardi) e la perequazione delle pensioni (1,6), che fanno altri 2,1 miliardi. A cui bisogna aggiungere 2,7 miliardi di spese indifferibili. Già così il conto è di 21,6 miliardi. Se poi, dando credito alle promesse di Renzi e del governo, inseriamo nel pacchetto anche le misure per le imprese (1 miliardo), gli interventi sulla flessibilità previdenziale (1,3), la rirproposizione della decontribuzione per i neoassunti (5) e il taglio della Tasi e dell’Imu su terreni agricoli e imbullonati (4,3) la lista da portare ai tecnici del ministero dell’Economia sale ad oltre 33 miliardi.

Un bel gruzzoletto la cui copertura è ancora avvolta nel buio. Di sicuro ci sono i 6,4 miliardi già concessi dalla flessibilità Ue a maggio. Altri 10 sono poi affidati alla famosa spending review, su cui ogni anno cambiano i target e le stime ma di cui nessuno a finora visto traccia, se non in quantità irrisorie. Altri 4-5 miliardi dovrebbero arrivare dalla minore spesa sugli interessi e altri 5-6 da una ulteriore correzione del deficit previa trattativa con Bruxelles ancora tutta da incardinare. Su quest’ultime due voci, però, incombe l’effetto Cina, che, al di là delle rassicurazioni del governo, potrebbe far saltare tutti i conti di Renzi. È indubbio, infatti, che la contrazione della crescita cinese metterà come minimo un freno all’export dall’occidente e dunque all’incremento della produzione industriale. Cosa che, in un momento di consumi interni ancora praticamente stagnanti, avrà un impatto consistente sul prodotto interno lordo. Ieri renzi ha di nuovo polemizzato con i «gufi». «Ho visto», ha detto, «grandi polemiche sul pil. Per mesi siamo stati in una situazione di difficoltà del pil e ora che torna a crescere i giornali dicono: cresce poco». Battute rese possibili da una stima prudenzialmente bassa (0,7%) contenuta nel Def per il 2015. Il problema arriverà nel 2016, dove la previsione è dell’1,4%. Un’asticella su cui molti economisti iniziano a dubitare. Senza quel pil rischia di scomparire anche quel margine sul deficit (previsto all’1,8%) su cui il governo è al momento aggrappato.

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