venerdì 14 agosto 2015

Ci spiano il conto senza dircelo

Prima o poi arriverà un giudice della Consulta, come è successo recentemente per gli 800 dirigenti fasulli dell’Agenzia delle Entrate, che dichiarerà tutto illegittimo e incostituzionale. Nel frattempo, il fisco continuerà a strapazzare i contribuenti a proprio piacimento, camminando sul filo del quadro regolatorio e dei cavilli legislativi.

A mettere l’ennesimo freno alle pretese garantiste dei cittadini ci ha pensato qualche giorno fa la Cassazione, sancendo il principio che gli ispettori delle Entrate possono mettere il naso nei nostri conti correnti come e quando vogliono, con o senza motivazione.
A prima vista la pratica sembra in contrasto con l’articolo 7 dello Statuto del contribuente (legge 212 del 2000), che stabilisce la nullità di un avviso di accertamento in presenza di una carenza di motivazione dell’atto impositivo, in questo caso rappresentata dalla mancata conoscenza e produzione del provvedimento di autorizzazione per l’indagine bancaria. Non solo. Frugare nei conti correnti senza esibire una motivazione è anche vietato dalla legge 241 del 1990 sui provvedimenti amministrativi e pure dall’articolo 12 dello Statuto, secondo cui gli ispettori del fisco devono «esplicitare in motivazione le ragioni effettive» che hanno indotto al «compimento del mezzo istruttorio» quando l’atto autorizzativo è «in grado di incidere direttamente sulle posizioni giuridiche dei soggetti contribuenti».

Utilizzando queste argomentazioni per ben due volte, in primo grado e in appello (marzo 2013), le Commissioni tributarie del Lazio hanno dato ragione ad un contribuente finito nel tritacarne di un accertamento relativo all’Irpef del 2002.
Tutt’altra l’opinione della Cassazione, che con l’ordinanza 15807/15 depositata il 27 luglio, ha annullato i due giudizi e disposto il rinvio del contenzioso ad un terzo verdetto che non potrà non essere favorevole all’Agenzia guidata da Rossella Orlandi. Secondo la Suprema Corte, infatti, le Commissioni tributarie non si sono uniformate alla giurisprudenza vigente, prodotta dalla stessa Cassazione, secondo cui «in tema di accertamento delle imposte (nella specie Irpef, Iva ed Irap) l’autorizzazione necessaria agli uffici per l’espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall’indicazione dei motivi». E questo «non solo perché la legge non dispone alcun obbligo» ma anche perché l’atto, «esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo» per cui sulla base della 241/90 sarebbe obbligatoria la motivazione.

Il ragionamento della Cassazione, che si era espressa in tal senso anche nell’ordinanza 16579 del 2013, ruota intorno ai dpr 600 del 1973 e 633 del 1972, che in materia di autorizzazione per le indagini bancarie si limitano ad indicare, per l’inoltro della richiesta di informazioni agli intermediari finanziari, gli organi che devono dare il via libera ai funzionari: il direttore centrale dell’accertamento o quello regionale per l’Agenzia delle Entrate e il comandante regionale per  la Guardia di Finanza.
In sostanza, per accedere ai movimenti bancari dei cittadini, per allungare l’occhio su polizze assicurative, libretti di risparmio e conti correnti, basta un timbro e uno scarabocchio su un foglio di carta. Non servono motivazioni, né generiche né specifiche. E in alcuni casi non serve neanche il foglio di carta. Come ha spiegato sempre la Cassazione nella sentenza 4001 del 2009, infatti, nel processo tributario la mancanza del documento autorizzativo non preclude l’utilizzo dei dati acquisiti. La pratica non sarebbe lecita. E potrebbero anche esserci riflessi disciplinari a carico del funzionario. Ma, a differenza del penale, in materia tributaria «non vige il principio della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita». In altre parole, anche le prove ottenute dagli ispettori nel mancato rispetto della legge potrebbero essere usate contro di noi. Tranne nei casi, ed ecco il bello, in cui la mancanza dell’autorizzazione «abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente». Come dire: se passo con il rosso becco la multa solo se investo un pedone.
La sentenza di luglio rompe, di fatto, l’ultimo argine a protezione del cittadino. Da una parte c’è il grande fratello fiscale, con il cervellone delle Entrate in cui confluiranno automaticamente il 15 febbraio di ogni anno tutti i dati dei circa 600 milioni di rapporti finanziari sottoscritti in Italia per i controlli incrociati e le analisi a campione. Dall’altra ci sono le indagini mirate, che ora, per legge, potranno essere effettuate anche senza alcun motivo. Alla faccia del fisco amico.

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