Nell’Italia dei veti incrociati e delle infrastrutture fantasma, in barba al #cambioverso, anche il gasdotto Tap si avvia verso il fallimento. Sulla carta tutto procede a gonfie vele. Il governo l’ha inserito nelle opere strategiche, il ministero dell’Ambiente ha concesso l’autorizzazione Via (valutazione impatto ambientale) e quello dello Sviluppo giovedì scorso ha convocato per il 3 dicembre la conferenza dei servizi finalizzata al rilascio dell’autorizzazione unica.
Peccato che malgrado le dichiarazioni d’intenti e i decreti per «sbloccare» il Paese, la realizzazione dell’infrastruttura che dovrebbe portare il gas dalla Turchia all’Italia passando per l’Albania (cosa non da poco, considerata la crisi uicraina) è vincolata al parere della regione Puglia, che dovrebbe ospitare l’approdo dei tubi. E il governatore Nichi Vendola non ha alcuna intenzione di rilasciare il nullaosta. Il che significa ricorso, già annunciato, del consorzio Tap al Tar, sei mesi di tempo per studiare la possibilità di un approdo alternativo a quello già individuato nel litorale di San Foca, avocazione della pratica da parte del Consiglio dei ministri attraverso un comitato tecnico a cui parteciperebbe sempre la Regione. In altre parole, il Tap non si farà.
Sarà un caso, ma nel gruppo di imprese che lavorano al progetto l’Italia non c’è. A inizio di ottobre nell’azionariato di Tap sono entrati Enagas e Fluxys, al posto di E.On e Total, con quote rispettivamente del 16 e del 19%. Gli altri azionisti sono: BP con il 20%, Statoil con il 20%, Socar con il 20% e la svizzera Axpo (5%). E Snam? La nostra società delle rete del gas, partecipata al 30% dalla Cdp (che è ben a conoscenza delle grane del governo), ieri ha chiuso i 9 mesi con utile netto di 863 milioni (+28%) e ha convocato per il 10 dicembre l’assemblea che dovrà deliberare l’aumento di capitale riservato all’acquisizione dalla stessa Cdp del Tag, un altro gasdotto che parte dalla Russia e arriva al nostro Tarvisio passando per l’Austria. Quanto al Tap, l’ad di Snam, Carlo Malacarne, ha detto testualmente che al momento «non si adatta al profilo di rischio» del gruppo e che un investimento «si potrà valutare in futuro» quando si «concluderà l’iter delle autorizzazioni».
In realtà, anche il Tag deve ancora completare l’iter, ma lì a decidere saranno l’Antitrust Ue e l’Austria, non gli ambientalisti capeggiati da Vendola. Una variabile che, evidentemente, fa la differenza quando si tratta di mettere i soldi sul tavolo. Di fatto, neanche la Cdp si fida dello sblocca Italia di Renzi.
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