La pandemia ha travolto il Paese come un uragano. Il Pil è tornato al livello di oltre 20 anni fa, i consumi viaggiano su percentuali che ricordano le temperature polari, le imprese sono alla canna del gas e milioni di lavoratori hanno ancora una busta paga solo grazie alla cassa integrazione. Dopoguerra a parte, non è mai accaduto nulla di simile. C’è una cosa, però, che è rimasta esattamente uguale agli scorsi anni. Manco a dirlo, le tasse.
Sul fisco non si scappa, possono pure arrivare le dieci piaghe d’Egitto, ma quando al governo c’è la sinistra piddina alleata con quella grillina cambia poco, potete star certi che i balzelli in qualche modo aumenteranno. Ve lo ricordate Giuseppe Conte in alcune delle sue innumerevoli conferenze stampa a reti unificate? “Mai metteremo nuove tasse”. Forse non aveva neanche torto. Il problema è che sono cresciute quelle vecchie. O meglio, non sono diminuite quanto avrebbero dovuto.
La precisazione è d’obbligo perché oggi gli espertoni di economia vi spiegheranno che le gabelle sembrano più alte soltanto perché il pil è sceso molto (-8,9%). E siccome il metodo per verificare la pressione tributaria e fiscale di un Paese consiste nel calcolare la sua percentuale in rapporto al prodotto interno lordo è normale che questo rapporto aumenti quando il denominatore si abbassa.
Per lo stesso motivo dovrebbero dirvi che quel debito arrivato nel 2020 al 155,6% del Pil, come ha certificato ieri l’Istat, non è veramente così alto come sembra. E anche per il deficit, sebbene il dato del 9,5% sia il peggiore dal 1995, qualcuno potrebbe sostenere che no, non è poi così grave.
Spiegazione tecnica
E veniamo alle tasse. La pressione fiscale nel 2018 era al 41,7% del Pil. L’anno successivo è salita al 42,4. Nel 2020, alla faccia delle promesse e della drammatica situazione, siamo arrivati al 43,1%. Che è un livello altissimo, se si considera che l’asticella depurata dall’evasione arriva vicino al 50% (in pratica chi paga le imposte versa la meta dei suoi guadagni allo Stato). La spiegazione tecnica fornita dall’Istat, come dicevamo, è che le entrate fiscali e contributive sono scese del 6,4%, mentre il Pil a prezzi correnti è calato del 7,8%. Di qui l’incremento del rapporto.
La spiegazione reale, però, è che in Italia sono crollati i fatturati delle imprese, i redditi delle famiglie, gli stipendi dei lavoratori e le vendite dei negozi. Soldi mandati in fumo dalla pandemia che hanno provocato il fortissimo dimagrimento del prodotto interno lordo (passato da 1.725 a 1.572 miliardi) e hanno allungato a dismisura le file dei poveri davanti alle mense della Caritas.
In questo contesto di forte recessione, le gabelle versate all’erario sono inevitabilmente diminuite, un po’ a causa dell’impatto della tassazione indiretta, che è alimentata dagli acquisti, un po’ per quei piccoli sconti e sospensioni messi in atto dal governo di fronte all’evidente impossibilità di gran parte dei contribuenti di pagare le tasse su guadagni avvenuti l’anno precedente, quando il virus non c’era.
Il punto è che gli interventi di compensazione fiscale non sono affatto bastati. E il rapporto tra i quattrini pretesi dal fisco e quelli persi con la crisi ha comunque dato un risultato negativo per i cittadini.
In altre parole, il non aver ridotto a sufficienza il peso dei balzelli ha comportato un aumento percentuale del prelievo. Non è un arzigogolo matematico, ma vita reale. Le imposte sul reddito vengono pagate in proporzione al guadagno. Se quest’ultimo diminuisce e io sono costretto a pagare le stesse tasse è evidente che il livello dei tributi che devo versare allo Stato risulta per me enormemente più elevato.
È esattamente questo che è successo agli italiani. Il governo ci ha raccontato la frottola del mancato aumento delle tasse. Mentre avrebbe dovuto farsi carico di alleggerire la pressione fiscale in proporzione alla diminuzione di ricavi e buste paga. Non lo ha fatto. Al posto dei ristori ci ha rifilato le gabelle.