Tre anni fa, più o meno in questo periodo, ci avevano detto che l’Italia era sull’orlo del baratro. Poi ci hanno spiegato che se non fosse arrivato il professor Mario Monti sarebbe andato tutto a carte quarantotto. Stesso discorso per Enrico Letta e Matteo Renzi. Tutti salvatori della Patria che avrebbero dovuto riportare il Paese sulla strada del benessere e dell’abbondanza.
Ebbene, a tre anni di distanza, nulla è cambiato. A parte le tasse. Quelle ne sono arrivate a valanga. Nel 2011 le entrate tributarie ammontavano a 455,3 miliardi di euro, il conto è salito nel 2012 a 472,1 e nel 2013 a 485,9. Per l’anno in corso si stima un bottino dell’erario pari a 487,5 miliardi, con uno scostamento rispetto al 2011 di 32,2 miliardi e un incremento cumulato nei tre anni di 79,6 miliardi.
Per verificare a cosa siano serviti i sacrifici degli italiani a suon di balzelli è utile confrontare la nota di aggiornamento del Def di qualche giorno fa con quelle stilate nel settembre 2012 e 2013 dagli allora ministri Vittorio Grilli e Fabrizio Saccomani.
Sulla finanza pubblica i numeri sono tristemente noti. Il deficit è sceso dal -3,8% del 2011, ma è sempre rimasto sul filo della procedura d’infrazione, con un -3% nel 2012, un -2,8% nel 2013 e di nuovo un 3% quest’anno. Quel poco recuperato sull’indebitamento annuo è, però, stato caricato sul debito, dove la situazione è nettamente peggiorata. Lo stock nel 2011 era al 120,8% del pil. Il professore ci ha poi portato nel 2012 al 127% e i due premier del Pd rispettivamente al 127,9 (2013) e 131,6 (2014). Passando al quadro macroeconomico la musica non cambia. Il Pil, che nel 2011 era aumentato dello 0,4%, è crollato del 2,4% nel 2012 e dell’1,9% nel 2013. Per dicembre si prevede ancora il segno meno: -0,3%. Malissimo sono andati i consumi e la domanda interna. La spesa delle famiglie nel 2011 era cresciuta, seppure di poco, dello 0,2%. Caduto il governo di Silvio Berlusconi i governi del salvataggio hanno portato l’indice giù del 4,3% (2012) e del 2,8% (2013). Per quest’anno si prevede, ma è tutto da verificare, una ripresina dello 0,1%. Stesso discorso per le importazioni. Cresciute dello 0,4% nel 2011 sono poi crollate addirittura del 7,7% nel 2012 e del 2,7% nel 2013. Anche qui si prevede ora un piccolo incremento dello 0,1%.
Anche su produttività e costo del lavoro i governi di centrosinistra hanno ingranato la marcia. Dallo 0,3% del governo Berlusconi si è passati ad un -1,3% nel 2012 e ad un -0,2% nel 2013. Il 2014 dovrebbe essere l’anno del rilancio con un rotondo +0,5%. Il costo del lavoro, in barba ai tagli sbandierati, ha continuato tranquillamente a salire. Dal +1,4% del 2011 al +1% del 2012 fino al +1,2% del 2013. Per quest’anno Renzi e Padoan prevedono una leggera frenata dell’incremento con +0,8%.
Il piatto forte è, però, la disoccupazione. Dall’8,4% del 2011 si è arrivati al 12,6% stimato per il 2014, passando per un 10,7% e un 12,2%. A metterci il carico, ieri ci ha pensato l’Istat, secondo cui il bonus da 80 euro ha aiutato i redditi medio-alti, mentre dal 2012 al 2013 è cresciuto del 35%, a quota 1,4 milioni, il numero di minori in povertà assoluta. Gli under 35, invece, sono aumentati «solo» del 21,8% (1,2 milioni). A ben guardare l’unico indicatore che è notevolmente migliorato nel corso degli ultimi tre anni è il famigerato spread. Da quello storico 9 novembre 2011 in cui il differenziale tra btp e bund schizzò a 574 punti, chiudendo poi a 553, la seduta si è chiusa ieri a quota 144 punti. Peccato che, detronizzato Berlusconi da Palazzo Chigi, illustri economisti ci abbiano poi spiegato che lo spread non conta un fico secco. A partire proprio dal professor Monti, che in una fase di risalita del differenziale ebbe a dire: «Lo spread è un falso mito che non dipende da quello che un Paese fa».
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