martedì 29 marzo 2016

Il governo si gufa da solo. Pil giù, buco da tre miliardi

I gufi non piacciono a Matteo Renzi, ma quando si tratta di tirare le somme sono sempre loro ad avere la meglio. Dopo mesi di festeggiamenti per la ripartenza dell’Italia sembra che il governo abbia deciso di ridimensionare significativamente le proiezioni di crescita per il 2016 fermando l’asticella del pil ad un modesto 1,3% in luogo dell’1,6 messo nero su bianco nella nota di aggiornamento del Def dello scorso settembre e confermato nel Documento programmatico di bilancio.

La cifra esatta non è ancora decisa. Ma i tecnici di Via XX Settembre che stanno mettendo a punto il nuovo Documento di economia e finanza da presentare al Parlamento e all’Europa entro il 10 aprile sono orientati a sforbiciare le stime di crescita al massimo livello politicamente accettabile. Stime prudenziali imporrebbero di scendere ancora più giù, considerato che le stime più recenti degli analisti non vedono margini oltre l’1%, ma Renzi non vuole presentarsi alla trattativa di Bruxelles con le armi completamente scariche.
Anche così sarà dura far digerire all’Europa il tentativo di aggiustare i conti per via amministrativa senza ricorrere ad una manovra correttiva. Ipotesi smentita anche ieri dal viceministro dell’Economia, Enrico Morando e considerata da Palazzo Chigi disastrosa in vista delle comunali. All’appello, però, mancano circa 3 miliardi. Soldi che il ministro Pier Carlo Padoan dovrà infilare nelle pieghe del bilancio per mantenere il deficit/pil entro una soglia del 2,3% rispetto al 2,4% stimato inizialmente dal governo (con uno 0,2% di flessibilità ancora sub iudice da parte della Ue) e un 2,5% previsto da Bruxelles.

L’operazione a cui stanno lavorando i tecnici del Tesoro, la cui fattibilità è tutta da verificare, prevede il recupero di circa due miliardi dai proventi della voluntary disclosure (stimati in 4 miliardi). Il resto arriverebbe da un passo indietro rispetto alle promesse fatte a novembre sul pacchetto sicurezza e cultura. In sostanza Renzi saterebbe pensando di rimangiarsi circa un miliardo di euro tra interventi sulle periferie urbane e stanziamenti per la difesa. Se Padoan dovesse riuscire a far quadrare i conti il problema sarebbe, però, solo rinviato al 2017, quando ci saranno anche da disinnescare clausole di salvaguardia per circa 45 miliardi fino al 2019. Si tratta infatti di somme una tantum che non andranno a migliorare il deficit strutturale che interessa l’Europa.
Ancora più delicata la questione del debito, su cui l’Italia rischia l’apertura di una procedura di infrazione per la mancata applicazione delle regole del fiscal compact.

In questo caso il buco è di ben 8 miliardi, lo 0,5% del pil che la legge di stabilità aveva previsto di incassare dalle privatizzazione e di cui, a tre mesi dall’inizio dell’anno, ancora si vede poco (l’Enav) o nulla all’orizzonte. Sfumata definitivamente la possibilità di portare a termine entro il 2016 la quotazione di Ferrovie su cui il nuovo ad, Renato Mazzoncini (paradossalemente chiamato proprio per lo stallo del vecchio management sul dossier privatizzazione), è stato categorico, spiegando che il progetto forse non  vedrà la luce neanche nel 2017, il governo si sta aggrappando all’idea di gettare in pasto al mercato un altro pezzo di Poste. L’ipotesi è quella di portare la partecipazione dall’attuale 65 al 35%, con un incasso stimato di circa 2,5/3 miliardi. Ma tutto dipenderà dai valori di Borsa e dallo sblocco del vincolo di legge che oggi impone allo Stato di restare sopra il 60%. Anche se tutto filasse liscio sarà comunque un’impresa centrare il target del 132,4% del debito/pil, in linea con le previsioni invernali di Bruxelles. Obiettivo minimo che lascerebbe l’Italia  ancora sottoposta alle valutazioni di Bruxelles. La speranza del governo, manco a dirlo, è  di ottenere un ulteriore sconto sul deficit anche per il 2017.

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