mercoledì 9 dicembre 2015

Il greggio va verso i 30 dollari, ma l'Eni si accaparra l'Iran

A fine giornata il petrolio è riuscito ad alzare un po’ la testa. Il Wti è risalito a quota 38 dollari il barile, dopo aver toccato i 36 dollari nel corso della seduta. Mentre il Brent, che per la prima volta dal febbraio del 2009 era sceso sotto i 40 dollari, ha chiuso la seduta ritornando di poco sopra quella soglia.

Un recupero che ha solo frenato il calo delle Borse. Tutte in flessione quelle europee, con Milano a guidare la truppa. Piazza Affari ha infatti chiuso, trascinata a fondo anche dai bancari e dai timori sulle economie emergenti, in calo del 2,26%.
Si tratta di uno scenario che Claudio Descalzi ha definito «strutturale». Non si tratta più, ha spiegato l’ad dell’Eni a margine della conferenza Cp21 in corso a Parigi, «di un’anomalia, la fase di prezzi bassi si dovrebbe protrarre anche il prossimo anno e probabilmente per un altro anno ancora».
Una prospettiva che ha già provocato forti tagli sia sul fronte degli investimenti sia su quello dei costi. La stessa Eni, che ha però rivendicato di «non aver tagliato posti di lavoro», ha già operato riduzioni per oltre 200 miliardi e la sforbiciata potrebbe verificarsi anche nel 2016.

Il Cane a sei zampe è comunque attrezzato per operare anche in un contesto con di quotazioni basse. «Abbiamo un break-even per progetti futuri», ha assicurato Descalzi, «a 40-45 dollari, quello per i progetti esistenti, che hanno già recuperato l’investimento, è inferiore. Per cui riusciremo assolutamente a reggere».
Resta da vedere cosa accadrà nei prossimi mesi. La maggior parte degli analisti è convinta che le novità in arrivo dall’Iran potrebbero peggiorare sensibilmente il quadro, portando l’asticella verso i 30 dollari. Con la fine delle sanzioni, infatti, il Paese mediorentiale si prepara ad aumentare la produzione, immettendo sul mercato qualcosa come 500mila barili al giorno. Un flusso che farebbe salire la produzione dell’Opec a 33 milioni di barili, record assoluto da sempre (a luglio la media è stata di 31,5 milioni).

Il nuovo protagonismo dell’Iran, del resto, potrebbe anche rappresentare un’opportunità per le aziende italiane. Il Paese ha bisogno di nuove tecnologie e di infrastrutture e si appresta ad attrarre investimenti con nuovi e più vantaggiosi modelli contrattuali.
Un’occasione anche per l’industria non petrolifera. Per quanto riguarda l’Eni, ovviamente in prima fila per lo sfruttamento della ripartenza iraniana, qualche beneficio dalla fine delle sanzioni è già arrivato.
Il Cane a sei zampe ha infatti chiuso l’accordo con l’Iran sul rimborso dei crediti commerciali. Le somme, che si aggirano sugli 800 milioni di dollari, risalgono ai costi sostenuti dalla fine degli anni Novanta, quando l’azienda, guidata allora da Vittorio Mincato, costruì diversi impianti di ricerca petrolifera nel territorio della ex Persia.

Non tutto, ovviamente, sarà restituito. Qualche settimana fa il Wall Street Journal parlava di un accordo per meno di 400 milioni di dollari. Descalzi, per ora, ha preferito mantenere il riserbo. «Lo diremo più avanti», ha spiegato, «diciamo solo che abbiamo trovato un compromesso tra le parti soddisfacente».
Non si sa quanto siano soddisfacenti, invece, i mostruosi ritardi ( si parla di 10 anni sulla iniziale tabella di marcia) che ancora bloccano l’avvio della produzione nel Mar Caspio. Ieri il ministro dell’Energia del Kazakistan, Vladimir Shkolnik, ha detto che il giacimento del Kashagan (che oltre alla kazaka KazMunaiGas vede impegnate Eni, ExxonMobil, Shell, Total, la cinese CNPC e Inpex) potrebbe ripartire «entro il dicembre del 2016». Annuncio che lascia il tempo che trova. E che, tra l’altro, era già stato fatto, più meno identico, lo scorso aprile.

© Libero