domenica 29 giugno 2014

Svelata la balla della flessibilità. Renzi ha firmato per più rigore

Altro che vittoria. Ieri il governo ha proseguito i festeggiamenti iniziati venerdì con la firma del documento finale del Consiglio europeo. Il premier Matteo Renzi ha spronato i suoi a rimboccarsi le maniche raccontando di «aver fatto capire all’Europa che l’Italia è un Paese forte, che non va con il cappello in mano, ma si fa rispettare». Stessa musica a Treia (Macerata), dove il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha partecipato alla presentazione del rapporto Symbola. Il vertice Ue, ha spiegato Graziano Delrio, «è una grande vittoria dell’Italia, che ha ritrovato credibilità con le riforme fatte e forza grazie al voto delle ultime elezioni europee». E proprio dall’europarlamento arriva la perentoria dichiarazione della neo eletta piddina Alessandra Moretti: «Siamo passati da una fase in cui i documenti li subivamo a una nuova in cui li scriviamo».

A leggere bene le carte di Bruxelles, però, si scopre che la marcia trionfale inscenata dal governo per aver ottenuto l’inserimento della parola «flessibilità» nel testo finale del vertice non ha molte ragion d’essere. Per cominciare c’è l’evanescenza di un sostantivo che dovrà essere declinato all’interno di una cornice di regole che non è cambiata di una virgola. Come ha ricordato venerdì Mario Draghi allo stesso Renzi in un faccia a faccia a margine del vertice, «il miglior uso della flessibilità» previsto dal documento Ue non lascia maggiori spazi di manovra al nostro Paese. In linea con con quanto detto più volte dalla Commissione e da Angela Merkel, il presidente della Bce ha spiegato al premier «nei patti c’è già abbastanza flessibilità» e che «non occorre estenderla oltre».

Dalle regole, insomma, non si scappa. E la prova è contenuta nello stesso foglio firmato da Renzi e sbandierato in questi giorni dal governo. Non nella parte, pur molto chiara, in cui si dice che la flessibilità è quella già concessa dai trattati, ma qualche riga dopo. Nella parte in cui si legge che «il Consiglio europeo ha generalmente approvato le raccomandazioni specifiche per Paese (Csr) della Commissione europea».
E qui viene il bello. Perché nel passaggio dalla Commissione (il 2 giugno scorso) al vertice Ecofin (16 giugno) le raccomandazioni per l’Italia, già molto severe e dubbiose sulla capacità del governo italiano di mantenere fede agli impegni di bilancio, hanno subito un ulteriore giro di vite che al posto della flessibilità impone al nostro Paese una rigorosa disciplina fiscale per arrivare al pareggio di bilancio nei tempi stabiliti.

Correzioni che il governo ha archiviato come piccoli ritocchi tecnici, ma che di fatto riducono fino all’inverosimile gli spazi di manovra del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Il documento approvato il 16 giugno dai ministri finanziari dell’Unione (compreso il nostro) e ratificato ufficialmente venerdì da Renzi conferma la concessione dello slittamento del pareggio di bilancio strutturale al 2016, già indicata nelle raccomandazioni del 2 giugno, ma aggiunge alcuni paletti a garanzia del raggiungimento dell’obiettivo.
Le modifiche apportate al testo licenziato dall’Ecofin il 16 giugno sono contenute nella prima raccomandazione. La parte iniziale, identica al documento del 2 giugno, chiede all’Italia di «rafforzare le misure di bilancio per il 2014 alla luce dell’ermergere di uno scarto rispetto ai requisiti del patto di stabilità e crescita, in particolare alla regola della riduzione del debito». La frase, però, nel secondo documento prosegue con l’aggiunta che il nostro Paese dovrà «garantire progressi verso l’obiettivo di medio termine», che altro non è che il pareggio di bilancio strutturale. Il concetto viene ribadito anche sul 2015. Pure in questo caso l’avvertimento è stato introdotto solo nella seconda versione del documento. La richiesta per il prossimo anno è infatti di «rafforzare significativamente la strategia di bilancio per garantire il rispetto del requisito di riduzione del debito». Monito cui l’Ecofin ha aggiunto la frase «e raggiungere così l’obiettivo di medio termine».

Può sembrare poca cosa. Ma la realtà è che in Europa una parola può fare la differenze, come dimostra del resto l’entusiasmo del governo per la «flessibilità». E le parole inserite dal vertice dei ministri economici della Ue il 16 giugno non sembrano affatto buttate lì, solo per abbellire il testo. La sostanza resta che il nostro Paese deve raggiungere il pareggio nel 2016. Ma gli sforzi che dovremo fare nel 2014 e nel 2015 non riguardano soltanto la riduzione del debito, come qualcuno aveva cercato di far intendere all’indomani delle raccomandazioni diffuse dalla Commissione Ue il 2 giugno. I ritocchi chiariscono che «gli sforzi aggiuntivi» chiesti dall’Europa nelle raccomandazioni riguardano il rapporto deficit/pil su cui non ci sono privatizzazioni da poter usare né debiti della Pa da poter accampare come scusa. In altre parole, la manovra correttiva è dietro l’angolo.
A dubitare che il vertice sia stato un successo c’è anche una vecchia conoscenza di Renzi, che fino a qualche mese fa faceva il viceministro dell’Economia. «Nonostante l’impegno e la determinazione dell'Italia», ha spiegato Stefano Fassina, «le conclusioni del vertice di Bruxelles sono preoccupanti. L’austerità flessibile è stata già praticata in questi anni. L’austerità è dovuta essere flessibile perché non ha funzionato».

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