martedì 22 aprile 2014

Il bonus ci costerà 4 miliardi di nuove tasse

Una terrificante tagliola fiscale da oltre 4 miliardi di euro. La mancetta di Matteo Renzi per 10 milioni di lavoratori con redditi compresi tra 8mila e 24mila euro potrebbe costare molto cara agli italiani. A prefigurare uno scenario catastrofico per le tasche di tutti i contribuenti (compresi quelli che gli 80 euro di bonus non li vedranno mai) è stato lo stesso Pier Carlo Padoan.

Intervistato dal Corriere della Sera il ministro dell’Economia ha detto, senza possibilità di fraintendimenti,che se non dovessero arrivare i risparmi previsti dai tagli alla spesa pubblica le risorse saranno trovate comunque. Come? È presto detto:«Ci sono clausole di salvaguardia misura per misura, altrimenti il provvedimento non potrebbero ricevere il visto della Ragioneria generale». Per chi, malgrado le brutte esperienze degli anni passati, non abbia ancora imparato, le clausole di salvaguardia altro non sono che nuove tasse, alla faccia de #lasvoltabuona con cui Matteo Renzi ha intasato i server di twitter. Come spiega, senza inutili giri di parole, Padoan, le «clausole prevedono, secondo i casi, l’utilizzo di risorse accantonate per altri fini, tagli lineari, aumenti di imposta».

Con lo strumento perverso, ormai diventato consuetudine di tutti i provvedimenti di bilancio dove le coperture traballano, abbiamo già fatto conoscenza solo qualche mese fa, a novembre 2013, quando è scattata la clausola contenuta nel decreto estivo per l’abolizione della prima rata Imu.
Per recuperare i 700 milioni ottimisticamente previsti dal governo Letta con la sanatoria sulle slot machine e i maggiori incassi Iva, l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni ha previsto l’incremento dell’acconto Ires a carico delle imprese per il biennio 2013-2014 e ha disposto un bell’aumento delle accise sui carburanti per il prossimo anno «tale da determinare maggiori entrate nette non inferiori a 671 milioni per il 2015 e 17,8 milioni per il 2016».

Un’altra colossale clausola di salvaguardia che rischia di scattare dal prossimo anno è quella legata alla spending review. Nella legge di stabilità 2014 sono infatti previsti obiettivi minimi che, in caso di mancato rispetto, consentiranno al governo di aumentare le entrate per 3,7 e 10 miliardi rispettivamente nel 2015, 2016 e 2017. Cifre a cui si devono aggiungere le risorse non recuperate dall’altra clausola inserita dal governo Letta e poi congelata dallo stesso lo scorso gennaio. La norma prevedeva «tagli lineari» alle detrazioni fiscali nell’ordine di un punto percentuale (dal 19 al 18%) per compensare i mancati risparmi derivanti dal riordino delle agevolazioni fiscali contabilizzati nella manvra in 488,4 milioni nel 2014, per 772, 8 nel 2015 e per 564,7 a partire dal 2016.

La novità dell’ultima ora è che un altro macigno sta per essere posizionato sulla testa degli italiani. Ed il filo a cui è appeso appare estremamente leggero. Il ministro dell’Economia, nell’ambito di un provvedimento da 6,9 miliardi, sembra escludere dal perimetro della clausola le maggiori entrate fiscali.
Nel dettaglio si tratta di 1,8 miliardi provenienti dalla tassazione al 26% delle plsuvalenze realizzate dalle banche con la rivalutazione delle quote di Bankitalia, di 300 milioni ricavati dalla lotta all’evasione e di 600 milioni di maggiore Iva dovuta al pagamento dei debiti della Pa.

Misura, quest’ultima, su cui è già scivolato il governo Letta. Anche ammettendo che tali entrate siano certe, resta da capire cosa accadrà dell’altropilastro del decreto Irpef: i 4,2miliardi affidati ai tagli di spesa pubblica. Qui il terreno sembra assai insidioso. Dei tanti provvedimenti sbandierati da Renzi pochissimi sono, infatti, quelli immediatamente esecutivi e moltissimi quelli che rimandano a successive decisioni tutte da verificare. Una misura operativa da subito è il cosiddetto capitolo sobrietà che prevede per il 2014 risparmi per 900 milioni attraverso il tetto di 240mila euro aglistipendi dei manager pubblici e il blocco delle consulenze esterne quando la spesa supera il 4,2% di quella totale per il personale. Partirà con il dl, anche se produrrà un notevole contenzioso giudiziario, pure il taglio del 5% dei contratti di fornitura per beni e servizi e la riduzione di150 milioni di trasferimenti alla Rai. Non hanno bisogno di altri passaggi neanche l’abolizione delle agevolazioni postali per i volantini elettorali e il taglio di 30 milioni del fondo per le università. Molto più complicata sarà invece la sforbiciata complessiva ai beni e servizi, valutata dal governo in 2,1 miliardi.

Per i 700 milioni affidati ai tagli dello Stato centrale servirà un decreto (Dpcm) entro 30 giorni. Per gli 1,4milioni a carico di Regioni e Comuni, però, si rinvia a decisioni che dovranno essere assunte dagli enti locali. In mancanza di tale decisioni, ma i tempi sono tutti da definire, il governo potrà procedere con tagli ai trasferimenti. Stesso discorso per le municipalizzate (100 milioni di risparmi) e per i 200 milioni di tagli dei ministeri, che richiederanno un altro decreto. Così come servirà un provvedimento per sforbiciare le auto blu e, soprattutto, per tagliare di 50 milioni le spese degli organi costituzionali. In questo caso saranno addirittura necessarie le deliberazioni di Presidenza della Repubblica, Camera e Senato e Consulta.
Il che basta a far capire quanto si avvicina l’ennesima clausola di salvaguardia.
© Libero