venerdì 2 agosto 2013

I crediti non pagati si possono dedurre

Buone notizie per le Pmi. Una volta tanto il fisco si muove in direzione dei contribuenti, tenendo conto delle condizioni avverse provocate dalla crisi. Un po’ in ritardo con i tempi, considerato che la norma di riferimento è inserita nel decreto sviluppo varato la scorsa estate dal governo Monti, ieri dall’Agenzia delle entrate è arrivata la circolare relativa alla deducibilità delle perdite sui crediti non pagati. La possibilità per le imprese di scaricare dalle tasse le somme a vario titolo non riscosse e inserite nel bilancio come perdite è già prevista da tempo, sulla base dell’articolo 101 del Testo unico delle imposte sui redditi.

 Il problema è che la legge impone una serie di precisi paletti per usufruire dello specifico trattamento fiscale. A partire dalla determinazione di «elementi certi e precisi» riguardanti la inesigibilità dei crediti. Il che non rende sempre agevole la pratica. All’impresa spetta, infatti, l’onere di dimostrare l’impossibilità «definitiva» di rientrare in possesso delle somme dovute. Dimostrazione che deve essere prodotta al fisco attraverso una documentazione che attesti, come spiega l’Agenzia delle entrate, «una situazione oggettiva di insolvenza non temporanea del debitore, riscontrabile qualora la situazione di illiquidità finanziaria ed incapienza patrimoniale del debitore sia tale da fare escludere la possibilità di un futuro soddisfacimento della posizione creditoria». In altre parole, tranne i casi di fallimento, dove gli elementi sono sufficientemente «certi e precisi» per definizione, servirebbe un certificato attestante lo stato di fuga, di latitanza o di irreperibilità del debitore. Oppure l’imprenditore dovrebbe attestare l’esito negativo di azioni esecutive. Circostanza che, però, non funziona con la Pa. Come ricorda la circolare, «l’infruttuosa attivazione delle procedure esecutive nei confronti di un ente pubblico, peraltro non assoggettabile a procedure concorsuali, non è da sola sufficiente a dimostrate l’impossibilità futura di recuperare il credito». Il risultato è che nella maggior parte dei casi il contribuente non solo non può rientrare in possesso del dovuto, ma dovrà anche pagarci sopra le tasse.

La nuova norma inserita nel decreto sviluppo allenta la morsa del fisco almeno sui crediti di minore entità. I chiarimenti diffusi ieri dall’Agenzia delle entrate, infatti, definiscono nel dettaglio il perimetro delle ipotesi che consentono di considerare automaticamente acquisiti gli «elementi certi e precisi» richiesti dal fisco.
La semplificazione «anti-crisi» che porterà un po’ di ossigeno alle Pmi a secco di liquidità e alle prese con ritardi mostruosi nei pagamenti riguarda crediti di «modesta entità e per i quali sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza del pagamento». Si tratta, specifica l’Agenzia, di somme fino a 2.500 euro per le piccole imprese e fino a 5.000 per quelle di dimensioni più rilevanti (sopra i 100 milioni di ricavi). Soglie che riguardano i singoli crediti, anche se in capo ad uno stesso soggetto debitore. Saranno deducibili senza limiti dimensionali, invece, i crediti il cui diritto alla riscossione sia prescritto. Così come quelli incagliati in procedure di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo e di amministrazione straordinaria. Saranno infine deducibili senza ulteriori intoppi burocratici anche i crediti cancellati dal bilancio sulla base delle procedure previste dai criteri di contabilità internazionali. La decorrenza, spiega l’Agenzia delle entrate, è immediata. Essendo la legge dello scorso agosto, la perdita potrà essere dedotta a partire dal periodo d’imposta 2012.

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