venerdì 13 agosto 2010

I russi telefonano con Wind

Non hanno neanche fatto in tempo a spegnersi le voci su un presunto interesse per l’As Roma, che Naguib Sawiris si trova di nuovo al centro dei rumors della comunità finanziaria. Questa volta l’affare è più grosso e, soprattutto, più concreto. Sul piatto c’è la possibilità che il magnate egiziano si affidi ai russi per alleggerire la sua esposizione con le banche. In cambio, il manager è disposto a cedere i gioielli di famiglia, a partire dall’italiana Wind, che è l’unica società della galassia che continua a macinare utili. Ma in vendita ci  sarebbe anche il 51% di Orascom Telecom, il colosso egiziano delle tlc presente in sette mercati emergenti di Medio Oriente, Africa e Asia del Sud.
A farsi avanti, secondo le indiscrezioni riportate dal quotidiano russo Kommersant, sarebbe Vimpelcom, la seconda compagnia telefonica del Paese. Un gigante con quartier generale ad Amsterdam, nato da una fusione di asset di Alfa Group e della norvegese Telenor. Attiva oltre alla Russia, in Ucraina, Kazakhstan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Georgia, Armenia, Vietnam e Cambogia, Vimpelcom copre un territorio di circa 345 milioni di persone. I suoi brand più noti sono Beeline e Kyivstar.
L’operazione, stando ad alcune fonti vicine al dossier, avrebbe un valore di circa 6,5 miliardi di dollari, esclusi i debiti del gruppo egiziano, e sarebbe realizzata in gran parte carta contro carta (ovvero con uno scambio di titoli). Sawiris e i suoi soci potrebbero ricevere oltre ai contanti circa il 20-23% delle azioni aventi diritto di voto della Vimpelcom, la cui capitalizzazione di mercato è attualmente di 22,6 miliardi di dollari. Si tratterebbe di una valutazione coerente con con il valore della quota in Orascom Telecom (2,4 miliardi di dollari) e di Wind (2 miliardi post indebitamento).
Secondo Kommersant, in seguito all’operazione, le partecipazioni dei principali azionisti della Vimpelcom, la norvegese Telenor e la russa Alfa Group, si ridurrebbero rispettivamente al 27% e al 35%, contro il 36,03% e 44,65% attualmente detenuto.
«Gli accordi implicano quasi un raddoppio della dimensione di Vimpelcom a livello di ricavi e la sua trasformazione in un operatore veramente internazionale con una esposizione geografica diversificata», spiegano in una nota gli analisti di Unicredit Securities. Una crescita che rientrebbe nei piani del gruppo, visto che l’operatore nel marzo scorso aveva detto di volersi preparare a competere con giganti del calibro di Google e Apple.
Resta da capire se il progetto rientra anche nei piani di Sawiris. Ieri sia i russi sia gli uomini del miliardario egiziano hanno evitato qualsiasi commento. Mentre Orascom Telecom, sollecitata anche dalla Consob del Cairo (l’Egyptian Exchange), si è limitata a dichiarare in una nota che la società «non è coinvolto in alcuna trattativa», aggiungendo però di non «poter fare alcun commento sugli azionisti». Come dire: se chi detiene il 51% delle azioni (la Weather Investment di Sawiris) ha deciso di vendere, non è cosa che ci riguarda.
Di sicuro prima o poi Sawiris dovrà ripagare le quote dei tre fondi di private equity entrati in Weather nel 2008 se non vuole che l’intero gruppo finisca in pancia ad Apax, Madison e Ta. La holding del magnate, 374esimo posto nella classifica Forbes degli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio personale stimato in 2,5 miliardi di dollari, ha sul groppone oltre 15 miliardi di debiti.
L’unica attività che porta soldi, come si diceva, è la nostra Wind, che attualmente ha un valore di circa 11 miliardi, 5,5 volte il margine operativo lordo. Anche il terzo operatore italiano, malgrado l’ottimo flusso di liquidità, ha comunque diversi miliardi di debiti (8,2), che per ora sta rimborsando sempre in anticipo sulle scadenze. Le cose vanno meno bene per Wind Hellas (la compagnia greca) e Orascom, che oltre all’esposizione non riescono a produrre profitti soddisfacenti. Il gruppo telefonico egiziano ha chiuso il secondo trimestre del 2010 con una perdita netta di 41,4 milioni di dollari rispetto ai 118 milioni di utili del 2009. I ricavi hanno raggiunto i 2,04 miliardi (+1%), mentre il margine operativo lordo si è attestato a 878 milioni e il debito netto a fine giugno è sceso a 4,6 miliardi.
La prospettiva dell’acquisto non ha comunque entusiasmato gli investitori, che a New York hanno penalizzato il titolo Vimpelcom provocando una flessione del 6,54%.

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giovedì 12 agosto 2010

Marchionne denuncia i tre licenziati

Non ha alcuna intenzione di incassare il colpo, Sergio Marchionne. Appena ricevuta copia dalla cancelleria della sentenza con cui il giudice del lavoro di Potenza ha stabilito il reintegro dei tre operai di Melfi (due dei quali rappresentanti della Fiom) licenziati, il Lingotto ha fatto sapere che presenterà ricorso «nel più breve tempo possibile». E teatro dello scontro non saranno solo le aule del tribunale civile. La Fiat ha infatti ricordato che «su questi stessi fatti è stata presentata una denuncia in sede penale».
Una mossa preventiva e probabilmente prudenziale che ora si rivela però preziosa, visto che il magistrato del lavoro ha deciso di spostare l’oggetto del contendere dal piano formale a quello sostanziale dello svolgimento dei fatti.
 La tesi sostenuta dal giudice Emilio Minio è infatti che il carrello robotizzato che ha provocato l’interruzione della produzione non si bloccò per un atto di sabotaggio, ma perché il «bumper» incontrò un ostacolo. Per la precisione, scrive il magistrato, «quando gli scioperanti si sono riuniti in assemblea nei pressi del carrello, questo ultimo era già fermo ed i lavoratori erano ad una distanza superiore a quella necessaria per l’attivazione del radar». Di conseguenza, si legge nella sentenza, «gli scioperanti non ebbero il deliberato intento di arrestare la produzione».
Non essendoci dolo, il licenziamento deciso dalla Fiat si caratterizza come una «sproporzione disciplinare» e si configura inevitabilmente come un comportamento antisindacale, considerato che i fatti alla base dell’espulsione «sono maturati nel corso di un’astensione dal lavoro per ragioni economiche-produttive e che il licenziamento ha interessato attivisti e militanti della Fiom, organizzazione notoriamente protagonista di una serrata critica sindacale al gruppo medesimo». In gioco, insomma, non c’è solo il tentativo di Marchionne di stabilire che la musica è cambiata e che una minoranza di lavoratori non può decidere anche per gli altri provocando il blocco della produzione, ma c’è la credibilità stessa dell’azienda che avrebbe, secondo quanto sostiene il giudice, falsificato la realtà per punire gli operai ribelli.

Il quadro istruttorio
Una versione dei fatti che il Lingotto è pronto a contestare in tutte le sedi, compresa a questo punto quella penale, dove la ricostruzione dovrà essere necessariamente più puntuale e minuziosa rispetto a quella svolta dal collegio monocratico del tribunale del lavoro. La decisione del giudice, si legge infatti in una nota della Fiat, «non appare coerente con il quadro istruttorio già emerso, pur nella sommarietà degli accertamenti condotti». La società è assolutamente convinta di «aver offerto prove incontrovertibili del blocco volontario delle linee di montaggio, che ha determinato un serio pregiudizio per l’azienda costringendola ad assumere doverosi atti di tutela della libertà di tutti i lavoratori e della propria autonomia imprenditoriale».
Sul piano tecnico i reati di cui potrebbero essere considerati responsabili i tre operai licenziati il 14 luglio rientrano presumibilmente nei “delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio”. In particolare, l’articolo 513 del codice penale prevede che “chiunque adopera violenza sulle cose ovvero mezzi fraudolenti per impedire o turbare l’esercizio di un’industria è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni”.
Le carte dovranno essere scoperte prima di quanto s’immagini. Già per il 23 agosto, ad esempio, si preannuncia un altro round, visto che è quella la data in cui secondo il giudice di Potenza i tre operai dovrebbero essere reintegrati.
Quali che siano gli sviluppi giudiziari una cosa è certa: la vicenda non farà che alimentare lo scetticismo che Marchionne non ha mai nascosto sulla capacità dell’Italia di poter garantire alla Fiat un contesto adeguato per ottenere quegli aumenti di produttività richiesti dal mercato nazionale e internazionale.

Sindacati spaccati
Non è un caso che Cisl e Uil si siano affrettate a puntare il dito contro l’irrigidimento della Fiom sostenendo che il ricorso della Fiat è un atto dovuto che non procurerà alcuna tensione nei rapporti sindacali col Lingotto. Il caso ridà comunque forza alle tute blu della Cgil, che ora possono gridare al complotto e alla ritorsione sventolando il decreto esecutivo del tribunale di Potenza.
 A gettare acqua sul fuoco sono invece gli stessi operai, che fondamentalmente sperano di poter tornare al lavoro. «È stato un mese difficile», dice il delegato della Rsu, Giovanni Barozzino anche a nome dei due colleghi Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, «siamo convinti che giustizia sia stata fatta e ora vogliamo solo tornare al nostro posto di lavoro, senza alcuna voglia di rivalsa».
Anche il giuslavorista Pietro Ichino tenta di smorzare i toni invitando tutti a mantenere il confronto legato «al singolo episodio disciplinare». Di sicuro non sembra il modo migliore per iniziare la sfida non solo industriale, ma anche culturale e politica della Fabbrica Italia voluta da Marchionne.

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venerdì 6 agosto 2010

In Italia le tasse più basse sugli affitti

Per una volta l’Italia può indossare la maglia rosa. Intendiamoci, i testi sono ancora da limare e il Parlamento deve ancora esprimersi. Ma stando a quanto scritto nella bozza del quarto decreto sul federalismo e a quanto promesso dal ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, con la cedolare secca la tassazione sui redditi da affitti nel nostro Paese sarà la più bassa d’Europa. Il confronto è molto facile con chi applica già l’imposta sostitutiva. Si tratta di Ungheria, Finlandia e Olanda, che hanno aliquote fisse rispettivamente al 25, 28 e 30%. Ma la quota del 20% prevista dalla riforma varata mercoledì da Palazzo Chigi, secondo un dettagliato confronto realizzato dal franchising immobiliare Solo Affitti, permette all’Italia di piazzarsi al di sotto anche dei Paesi che applicano la tassazione attualmente in vigore da noi, ovvero l’accorpamento dei redditi da affitto a quelli personali su cui poi viene complessivamente calcolata l’Irpef. Un metodo che fino ad ora, grazie alle nostre aliquote ordinarie non proprio basse, posiziona l’Italia tra i Paesi europei dove i redditi di affitto sono i più tartassati.
Se tutto va bene, dal 2011 si cambia. E i vantaggi saranno per tutti. Compreso il fisco, che dopo una prima inevitabile fase di assestamento, grazie all’emersione del nero, vedrà il gettito crescere in maniera consistente malgrado l’abbassamento dell’aliquota.
I primi effetti visibili e concreti saranno però quelli nelle tasche di proprietari ed inquilini. Per i primi i risparmi di imposta saranno direttamente proporzionali all’aumento del livello del reddito. Per i secondi, lo sconto sarà più contenuto ma comunque importante. La cedolare secca, infatti, abolisce l’imposta di registro a carico di chi sottoscrive un contratto di locazione, che incide per il 2% sul canone annuale.
La Cgia di Mestre ha fatto un po’ di conti e ha verificato, attraverso una serie di simulazioni, che i risparmi possono arrivare fino al 48,6% rispetto ai tributi versati attualmente. Numeri alla mano, per la classe di reddito tra i 29.000 e i 55.000 euro, che presenta il più elevato numero di persone che danno in affitto un’abitazione (545.103 soggetti) il canone di locazione medio annuo percepito è di 5.413 euro. Con la tassazione attuale il proprietario versa al fisco 1.875 euro (1.821 euro di imposte Irpef e addizionali regionali e comunali, 54 euro di imposta di registro). L’applicazione della cedolare secca con aliquota al 20%, permetterà al locatore di pagare solo 1.083 euro, con un risparmio netto di 793 euro all’anno di imposte. «Visto che la decisione di utilizzare questo nuovo regime fiscale sugli affitti sarà facoltativa», dice il presidente della Cgia, Giuseppe Bortolussi, «grazie ai risultati d queste prime simulazioni mi sento di poter dire che il livello di applicazione dovrebbe essere molto alto».
Un pizzico di scetticismo in più c’è dalle parti di Confedilizia, associazione che riunisce proprio i proprietari di case. Anche loro si sono fatti due calcoli e alla fine è emerso che la cedolare è conveniente, ma non proprio per tutti. Se infatti per i cosiddetti contratti liberi (quattro anni più quattro senza limitazioni di prezzo) l’aliquota fissa al 20% fa risparmiare qualcosina a tutte le fasce di reddito, così non è per i contratti agevolati, quelli di tre anni più due a canone calmierato. In questo caso, infatti, entrano in gioco forti deduzioni fiscali, fino al 45%, che vanno a modificare l’impatto dell’Irpef. Per questo tipo di contratti la cedolare al 20% inizia a diventare conveniente solo per gli scaglioni di reddito annuo sopra i 28mila euro. Al di sotto, infatti, i redditi da affitto vengono attualmente tassati, tenendo conto delle agevolazioni, con aliquote che vanno dal 13,6 al 16%. In altre parole, chi utilizza contratti calmierati e ha un reddito basso, al di sotto dei 15mila euro, potrebbe addirittura dover versare al fisco qualcosa in più. Per un canone d’affitto di 10mila euro annui la tassazione aggiuntiva potrebbe anche raggiungere i 632 euro l’anno.
Su questo fronte, però, la materia è ancora in via di definizione e non sono escluse modifiche sia nel testo definitivo del governo sia nel successivo passaggio parlamentare. Tra le proposte per migliorare il testo c’è quella, assai interessante, che arriva dal presidente di Solo Affitti, Silvia Spronelli. L’idea, sempre nell’ottica di favorire l’emersione dell’evasione fiscale, è quella di affiancare alla cedolare la possibilità per gli inquilini di detrarre dall’Irpef il canone di locazione. Come con l’aliquota fissa, il fisco alla fine resterebbe in attivo grazie alla quota di sommerso che esce allo scoperto, mentre per i cittadini, in tempo di crisi e di difficoltà di accesso al credito, potrebbe essere una vitale boccata d’ossigeno.

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La lotta all’evasione a fine anno varrà 9 miliardi

Cinque miliardi in sette mesi. L’Agenzia delle Entrate risponde con i numeri a chi accusa il fisco di avere abbassato la guardia nella lotta agli evasori. Il bottino incassato dall’erario grazie all’opera di contrasto ha già superato del 9% quello recuperato nello stesso periodo del 2009. E il direttore Attilio Befera non ha escluso che per la fine del 2010 si riesca ad andare al di là delle stime (8 miliardi) e a superare il massimo storico registrato l’anno scorso con 9,1 miliardi complessivi.
Nel dettaglio, in sette mesi il recupero dell’evasione pregressa, insieme a interessi e sanzioni, ha totalizzato 4,9 miliardi di euro, di questi 1,8 derivano dal riversamento nelle casse dello Stato delle riscossioni messe a segno da Equitalia, mentre la restante e più copiosa parte, 3,1 miliardi (+15% su 2009) proviene dai versamenti diretti. Un capitolo in cui confluiscono due voci distinte: 900 milioni (+28,57%) intercettati attraverso la liquidazione delle dichiarazioni, un’evasione che consiste nel dichiarare ma poi non versare nulla; 2,2 miliardi sono invece i pagamenti effettuati direttamente dai contribuenti che hanno scelto di pagare senza contestare nulla o hanno definito in contraddittorio con l’Agenzia.
 I risultati ottenuti sono il frutto di una raffica di controlli: tra gennaio e luglio ne sono stati messi a punto 151.543, per un’imposta maggiore accertata di 9,8 miliardi (+5,8%). In particolare, gli accertamenti avvenuti grazie al cosiddetto redditometro hanno registrato un forte aumento (+57%) sia nel numero (12.399) che nella quantità (184 milioni). Befera è convinto che la manovra abbia affinato ancora più le armi del fisco. «Ha potenziato il redditometro, accelerato la riscossione, introdotto un’altra stretta sulle compensazioni e abbassato la soglia per l’antireciclaggio», ha spiegato il direttore. Per rendere «meno indolore il dovere» dei contribuenti l’Agenzia ha anche avviato un restyling della modulistica e ha già messo a punto le nuove versioni dei modelli più comuni. Consolazione magra, quando si tratta di pagare.

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giovedì 5 agosto 2010

Unicredit caccia 4.700 dipendenti

L’avanzata di Gheddafi, lo scivolone sui conti, le tensioni con i sindacati sugli esuberi. Non è un’estate facile quella di Alessandro Profumo, che esce da un inverno altrettanto travagliato. Passato a battagliare con i soci, principalmente le Fondazioni, e la politica, principalmente la Lega, per far digerire il progetto della Banca unica. Ed è proprio su One4C, il piano di accorpamento in Unicredit delle cinque società controllate, che si profila ora la grana più grossa. Non è un caso che i vertici di Piazza Cordusio abbiano aspettato fino all’ultimo via libera definitivo (arrivato all’unanimità dal cda di martedì) per alzare il velo sulla bomba esuberi. Separare gli aspetti tecnico-organizzativi dai tagli era probabilmente l’unico modo di far arrivare in porto il progetto. La strategia ha permesso all’ad di Unicredit di sciogliere i nodi legati alle resistenze di alcuni grandi soci e di ottenere persino il consenso di massima dagli stessi sindacati.
Che il problema, prima o poi, dovesse essere affrontato era però chiaro. Già lo scorso novembre, quando la banca unica muoveva i suoi primi passi, si era rumoreggiato di un blocco di esuberi tra le 6 e le 7mila unità. Ieri, con il traguardo del primo novembre (data di partenza del progetto) bene in vista, è arrivato il verdetto definitivo:  il piano richiede il sacrificio di 4.700 posti di lavoro nel triennio 2011-2013.
Una mazzata per i sindacati, che hanno subito denunciato l’effetto Marchionne. «Delle due l’una», ha tuonato il segretario generale della Fabi, Lando Sileoni, o Profumo pensa di farsi un contratto nazionale a parte oppure ha deciso di imporre al settore del credito il modello organizzativo che ha presentato alle organizzazioni sindacali». Il risultato è la promessa, per settembre, di «un aspro e duro confronto» su un modello «che dal 2007 ad oggi ha prodotto la fuoriuscita dal gruppo di 10mila lavoratori». In campo, vista l’entità dei tagli, è pronto a scendere anche il governo. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha bloccato preventivamente qualsiasi blitz sui tagli. «Sarà doveroso un confronto approfondito e sono vietati in tutti i modi atti unilaterali», ha detto.
Le cose non vanno molto meglio sul fronte societario. All’indomani di una semestrale poco entusiasmante (con utili in calo e sofferenze in aumento) è arrivata un’altra notizia che non mancherà di suscitare polemiche. I libici sono diventati ufficialmente il primo socio di Unicredit. Ieri la Libyan Investments Autorithy, il braccio finanziario di Gheddafi, ha annunciato di aver portato la partecipazione sopra il 2%, facendo così lievitare l’intera compagine libica intorno al 7%, visto che la Banca Centrale Libica e la Libyan Arab Foreign Bank già sono titolari di un 4,98%. Se a queste percentuali si aggiunge il 4,99% detenuto dal fondo Aabar di Abu Dhabi, la quota complessiva in mano a operatori legati al mondo arabo sale al 12%. Cifra che non farà piacere ad alcuni esponenti della Lega, che già avevano sollevato con forza il problema del collegamento tra banca e territorio proprio in occasione dell’ingresso di Aabar. Anche l’autunno, per Profumo, si preannuncia molto caldo.

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Telecom chiude l’accordo. I sindacati firmano 3.900 esuberi

Mentre si apre il fronte Unicredit, per gli esuberi di Telecom c’è invece l’accordo. Al termine di una maratona negoziale durata oltre venti ore, governo, azienda e sindacati (Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil e Ugl) hanno trovato la quadra e raggiunto un’intesa che prevede 3.900 uscite, tutte volontarie, contro gli oltre 6.800 esuberi previsti dal piano triennale. La vicenda, che era cominciata sotto i peggiori auspici a metà luglio con l’avvio delle procedure di licenziamento per 3.700 dipendenti, si conclude ora con la soddisfazione di tutte le parti in causa.
Nessuno, infatti, verrà licenziato unilateralmente, così come sembrava all’inizio. I 3.900 che verranno invitati a lasciare l’azienda da qui alla fine del 2012 lo faranno solo su base volontaria: di questi, 3.700 sono nuovi esuberi, mentre 200 sono «rimanenze» del triennio 2008-2010. L’accordo prevede poi una sorta di rete d’emergenza per i lavoratori meno tutelati, fatta di corsi di formazione per la ricollocazione professionale all’interno dell’azienda e di contratti di solidarietà: ne beneficeranno 1.100 lavoratori non coperti da ammortizzatori sociali, 450 dipendenti della controllata Ssc e 470 addetti del servizio di informazioni abbonati 1254, che si trovano già in queste condizioni e che usufruiranno di un rinnovo di due anni. È infine prevista la possibilità di riallocare i 40 lavoratori ex Tils nel gruppo.
Nell’arco del triennio, inoltre, Telecom si impegna a non effettuare societarizzazioni o esternalizzazioni per le attività di Customer Operations, e nemmeno l’esternalizzazione di attività informatiche o di staff. «L’accordo è un segnale di maturità da tutte le parti: sindacato, azienda e governo», ha commentato con soddisfazione il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, che con Maurizio Sacconi era subito sceso in campo con la convocazione del tavolo all’indomani dell’invio delle prime lettere di licenziamento. E anche il ministro del Lavoro ha parlato di «buona notizia, anche perché solo poche settimane fa c’era un quadro diverso con licenziamenti unilaterali».
In una fase in cui non si contano più gli accordi separati, quello su Telecom vede invece la firma di tutte le sigle. Secondo la Cgil «la forte tenuta unitaria del sindacato è stata fondamentale per il risultato raggiunto», mentre la Cisl parla di «grande conquista del sindacato». A giudizio della Uil l’intesa segna il ritorno a un «buon sistema di relazioni industriali» e l’Ugl parla di «accordo che rimette al centro il lavoratore». Per l’azienda, infine, l’ad Franco Bernabè ha dichiarato che «la firma dell’accordo, che realizza interamente gli obiettivi di efficienza previsti nel piano, garantisce il rispetto e la tutela dei lavoratori». Positiva anche la reazione della Borsa (+1,84% a 1,05 euro), che intanto guarda anche al cda di domani con i conti del semestre: secondo gli analisti il gruppo telefonico archivierà ricavi per oltre 13 miliardi (-5%) e un utile netto pari a 1,1 miliardi (+14%).

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Affitti meno tassati: cedolare secca al 20%

La cedolare secca scende al 20% dal 25% inizialmente previsto. È questa la principale novità che arriva dal primo via libera del Consiglio dei ministri al quarto decreto attuativo del federalismo fiscale. Quello tanto atteso dai sindaci sui balzelli comunali. Per il resto nel provvedimento è confermata l’introduzione dal 2014 di due nuove forme di tributi locali: un’imposta municipale propria e una secondaria facoltativa.
Nella prima voce (la cosiddetta Imu) rientrano tutte le tasse attualmente previste per gli immobili e i terreni tra cui l’imposta di registro, ipotecaria e catastale, l’Irpef relativa ai redditi fondiari (escluso il reddito agrario), l’imposta di registro e di bollo sui contratti di locazione relativi ad immobili, i tributi speciali catastali, le tasse ipotecarie. A questi balzelli si aggiungerà l’imposta facoltativa che, dopo aver ascoltato i cittadini in un referendum, i comuni potranno introdurre per incorporare gli attuali prelievi sull’occupazione del suolo pubblico e su insegne e cartelloni pubblicitari. Il gettito complessivo delle nuove imposte resterà tutto nelle casse delle amministrazioni locali, come previsto dal processo di devoluzione fiscale stabilito dalla riforma.
Per quanto riguarda la cedolare secca, dal 2011 il canone di locazione relativo ai contratti stipulati per immobili ad uso abitativo, e relative pertinenze affittate congiuntamente all’abitazione, potrà essere assoggettato, se il locatore così deciderà, a questa nuova imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali, nonché dell’imposta di registro e di bollo sul contratto di locazione. La nuova tassa potrà essere applicata anche potrà essere applicata anche ai contratti per i quali non sussiste l’obbligo di registrazione. Sulla tempistica di avvio inciderà però la durata dell’esame del provvedimento da parte della Conferenza Stato-Regioni e del Parlamento. La novità sull’aliquota è stata confermata dallo stesso ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli. Si abbassano anche, rispetto alle attuali, le aliquote riguardanti le compravendite. Per quanto riguarda quella sulle seconde case si passa dal 10 all’8%, mentre quella sulle prime case dovrebbe essere al 2 o al 3%.
I tecnici sono comunque ancora al lavoro sulle ultime limature e gli ultimi calcoli, che, in ogni caso, non cambieranno l’impianto del testo. Soddisfatta (anche se non completamente) l’Anci, che proprio in attesa del provvedimento aveva in parte sospeso il giudizio sui tagli inseriti nella manovra. Il provvedimento, si legge in una nota dell’associazione, «rimette i comuni in carreggiata, ponendo le basi per avere un quadro di risorse certo, costante e legato direttamente al territorio». Detto questo, proseguono i sindaci, «non siamo ancora nel federalismo, perché la legge Calderoli ha ancora tanti pezzi che devono essere incastrati, ma sicuramente si entra in una fase nuova, fatta di responsabilità e autonomia.
L’abbassamento di cinque punti della cedolare arriva invece dopo un deciso pressing delle associazioni dei proprietari delle case, che però ancora non sciolgono le riserve. Confedilizia prende atto che la misura sui canoni di affitto «esce dal Consiglio dei ministri migliorata», tuttavia, secondo il presidente Corrado Sforza Fogliani, «rimane il problema della penalizzazione dei contratti a canone calmierato, per i quali temiamo che la cedolare secca non sarà una scelta generalizzata se, sulla base dei previsti pareri parlamentari, il governo non ripristinasse per questi contratti le attuali agevolazioni».
Sugli altri balzelli nella fase di avvio (di durata triennale) i comuni riceveranno il gettito dei tributi immobiliari, che manterranno fino ad allora l’assetto attuale. Dal 2014, invece, verranno introdotte le due nuove forme di tributi. Lo schema di decreto legislativo approvato ieri verrà trasmesso alla Conferenza unificata per la acquisizione dell’intesa e, successivamente, alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale ed alle altre Commissioni parlamentari competenti.

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mercoledì 4 agosto 2010

Il Brasile balla la samba della ripresa

Altro che Rio. La vera samba brasiliana è quella che si balla alla Borsa di San Paolo, dove l’entusiasmo degli investitori sembra inesauribile. Lunedì l’indice Bovespa ha chiuso le contrattazioni in rialzo dell’1,5% a 68.517 punti. La giornata è stata complessivamente positiva per tutti i mercati dell’America Latina e a spingere i titoli sono stati principalmente i prezzi delle materie prime (in particolare rame e petrolio) saliti alle stelle. Ma per il listino di San Paolo si tratta dell’undicesima seduta consecutiva che si conclude con il segno più. Una serie positiva che non si vedeva da 7 anni e che si va ad aggiungere ad un +10,8% realizzato dal listino nel solo mese di luglio.
Una sorpresa? Non proprio. Il Bovespa è ben conosciuto da chi si occupa di mercati finanziari. Nel 2009 infatti la Borsa brasiliana, la quarta al mondo come valore di scambi, ha battuto ogni record. Le azioni quotate sulla piazza di San Paolo, mentre sui mercati dei Paesi più industrializzati soffiavano venti di crisi, hanno ottenuto complessivamente una valorizzazione del 120,9%. Una percentuale che ha permesso al Brasile di piazzarsi al primo posto davanti a Indonesia (118%), Russia (101%), Cile (80%) ed Argentina (58%).
L’euforia borsistica brasiliana non è frutto della speculazione, che pure è sicuramente presente in un mercato dinamico e caratterizzato da forti oscillazioni, ma è lo specchio di una corsa complessiva di tutto il sistema economico. Nel primo trimestre del 2010 il Pil è cresciuto del 9% su base annua. Ben più delle altre economie principali della regione, che hanno comunque tutte, tranne il Venezuela, registrato una robusta crescita.
La realtà è che il Brasile, sfruttando le opportunità che la crisi ha concesso e sta concedendo ai Paesi emergenti, sta vivendo una fase di espansione a ritmi “cinesi”. Un aggettivo non casuale, visto che la Cina occupa un posto di primo piano nel boom brasiliano. Il gigante asiatico è infatti diventato il primo mercato di sbocco (soprattutto per quanto riguarda le materie prime) per il Paese latino, superando Stati Uniti ed Unione europea. In altre parole, quando cresce il primo, lo fa anche il secondo. Al punto che ora la preoccupazione degli economisti è che il Paese vada troppo veloce. L’inflazione, ad esempio, dovrebbe continuare a salire nei prossimi mesi, per chiudere l’anno sopra il 5,5%, superando così l’obiettivo del 4,5% della Banca centrale, che è pronta ad intervenire con una serie di rialzi dei tassi d’interesse.
Nell’attesa di nuovi sviluppi, tenendo conto che ad ottobre ci sono le elezioni presidenziali, c’è chi anche da noi sta ballando al ritmo di samba. Sono molte infatti le società italiane che hanno importanti interessi nell’area. Impregilo, Parmalat, Pirelli, ma soprattutto Fiat e Telecom. Proprio ieri la controllata brasiliana del gruppo di tlc, Tim Partecipacoes, ha chiuso il secondo trimestre con utili ordinari e margini in forte crescita. Risultati che hanno spinto il titolo a San Paolo oltre il 3% di guadagno.
Ma l’espansione più forte sul mercato brasiliano in questo momento è quella che sta vivendo la Fiat. Il Lingotto a luglio è riuscito a fare addirittura meglio (+16%) dell’andamento complessivo del settore dell’auto (+15%) che continua a crescere con forza.  Le auto vendute complessivamente sono arrivate a 285mila, delle quali 70 mila della Fiat. La casa torinese ha mantenuto il primo posto nell’accumulato dei primi sette mesi dell'anno, con 411 mila vetture vendute (37 mila in più della seconda collocata, la VolksWagen), pari al 23% del mercato complessivo dell’auto in Brasile. Se continua così la Nuova Uno, l’auto sviluppata in Brasile per dar seguito al successo del vecchio modello, potrebbe diventare presto il modello più venduto, battendo lo storico primato della tedesca Gol.

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Nuove quotazioni. Alla Borsa cinese valgono 90 miliardi

La crisi? Un ricordo lontano. È questa la sensazione che si ha guardando i numeri impressionanti ottenuti dai collocamenti in Borsa negli ultimi mesi. La raccolta delle Ipo globali a luglio ha spiccato un balzo tale che ha riportato le cifre ai livelli precedenti al collasso dei mercati finanziari. Secondo i calcoli effettuati da Reuters nel mese scorso la somma a livello mondiale ha raggiunto quota 30,5 miliardi di dollari, il massimo dal novembre 2007.
Fino a tutto il 2009 le Ipo erano in genere rimaste sotto il cono d’ombra delle emissioni secondarie, molte delle quali effettuate da banche spinte ad aumentare il capitale dalla pressione degli enti regolatori. Nel 2010 il cambio di rotta. Secondo i dati raccolti da Ernst & Young per i primi sei mesi dell’anno in debutti in Borsa sono letteralmente esplosi. Se il primo semestre dell’anno passato si era concluso a livello globale con 134 operazioni per un valore complessivo di raccolta di 11,8 miliardi di dollari, quello del 2010 ha visto crescere i collocamenti a 575 (290 nei primi tre mesi, 285 nei secondi tre) e la raccolta arrivare fino a quota 98,2 miliardi di dollari.
Le aree più interessanti da un punto di vista delle Ipo sono state nel secondo trimestre, oltre alla Cina, che primeggia con 172 operazioni e 35,4 miliardi raccolti (153 operazioni e 25,3 miliardi nei primi tre mesi), gli Stati Uniti, con 33 operazioni e 4,7 miliardi, la Polonia, con 16 operazioni e 4,1 miliardi, l’India, con 7 operazioni e 2,8 miliardi, ed infine la Spagna, con 3 operazioni e 1,9 miliardi.
A fare la parte del leone nel balzo di luglio è ancora una volta la Cina. Il collocamento sui listini azionari di Hong Kong e Shanghai della Agricultural bank of China, la quarta banca al mondo per capitalizzazione dopo Icbc, China Construction Bank e Hsbc, ha raccolto 22,5 miliardi di dollari, un nuovo record a livello planetario.
Se nel mondo è tornato l’appetito per il rischio, da noi la fame ancora scarseggia. Il mercato italiano ha visto per il momento un solo collocamento, e ne attende altri due, Enel Green Power e Fideuram, nella seconda metà dell’anno.

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martedì 3 agosto 2010

Non passa la Francia. A Finmeccanica l’alta velocità di Fs

La possibilità, un po’ bizzarra, di vedere circolare sui binari italiani dell’alta velocità solo treni francesi sembra archiviata. Il colosso d’Oltralpe Alstom, che già fornisce i suoi prodotti alla Ntv di Montezemolo (che dal 2011 farà concorrenza alle Fs), questa volta è rimasto a bocca asciutta. Ad aggiudicarsi la mega commessa da 1,54 miliardi di Trenitalia per 50 convogli super veloci è stato infatti il consorzio italo-canadese formato da AnsaldoBreda (gruppo Finmeccanica) e Bombardier.
La decisione è stata accolta con entusiasmo da quanti, in questi mesi, avevano fatto il tifo per l’Italia, compreso l’ad delle Fs Mauro Moretti, che in alcune occasioni non aveva nascosto la speranza che a vincere fosse Finmeccanica. Anche per questo, per evitare sospetti o insinuazioni, le Ferrovie dello Stato hanno voluto mettere in campo una procedura di gara estremamente rigorosa, articolata in due differenti valutazioni, una tecnica e una economica, effettuate sulla base di punteggi assegnati con metodi stabiliti in partenza.
Nel dettaglio, i punti ottenuti dal consorzio italo-canadese sono stati 56,533 per la parte tecnica e 28,28 per la parte prezzi (30,8 milioni per treno). L’offerta del gruppo francese Alstom ha invece ottenuto 50,795 per la parte tecnica e 28,61 per quella relativa al prezzo (35 milioni). La formalizzazione della commessa arriverà dopodomani nel corso del cda di Trenitalia.
A sbaragliare la concorrenza è stato il nuovo Zefiro V300, mix della versione evoluta del V250 di Ansaldo con il gioiello di Bombardier già scelto dalle verrovie belghe ed olandesi. Il supertreno avrà una velocità commerciale di 360 chilometri orari e una massima di 400, una lunghezza di 200 metri e una capienza di 600 posti (raddoppiabili accoppiando due Zefiri uno dietro l’altro). Ma, soprattutto, sarà “interoperabile”, adatto cioè alla circolazione in otto diversi Paesi europei. Il convoglio è, insomma, l’asso nella manica di Moretti per affrontare la sfida della liberalizzazione del trasporto passeggeri attraverso la conquista di nuovi mercati. Secondo l’ad delle Fs si tratta del «miglior treno al mondo». In più, ha rivendicato con orgoglio l’ad, «siamo gli unici in Europa ad aver fatto una gara. La nostra decisione dimostra che ci sono vari modi per comprare treni: c’è chi compra a scatola chiusa e chi sceglie una via diversa, come abbiamo fatto noi, per imprimere uno sviluppo ai treni ad alta velocità».
Grande soddisfazione da parte di Pierfrancesco Guarguaglini. La vittoria della gara, ha detto l’ad di Finmeccanica, «è una grande opportunità e conferma la validità dei nostri prodotti, dei processi industriali che la nostra azienda sta implementando e delle referenze acquisite presso i maggiori clienti a livello mondiale».

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lunedì 2 agosto 2010

Guerra per il tesoretto di An

Archiviato il divorzio politico, ora bisogna pensare a quello economico. E anche qui la battaglia si preannuncia tutt’altro che facile. Gli ex colonnelli di An non sembrano infatti intenzionati a lasciare che Gianfranco Fini si pappi tutto il tesoretto del vecchio partito. Sul piatto ci sono attualmente circa 105 milioni di euro di cassa e la torta ben più sostanziosa del patrimonio immobiliare: sezioni, case e palazzi sparsi in tutta Italia il cui valore si aggirerebbe sui 3-400 milioni di euro (anche se gli amministratori sostengono che una valutazione vera e propria non sia mai stata fatta). Molti gli immobili di pregio, tra cui il palazzo romano di Via della Scrofa, ex sede nazionale del partito, e la storica sede milanese di Via Mancini.
Terreno di scontro sarà la nascitura Fondazione Alleanza Nazionale, un’idea che nacque (sulla scorta di quanto fatto dai Ds con la creazione del Pd) all’epoca della fusione con Forza Italia non solo per continuare a percepire i rimborsi elettorali, ma anche per blindare i forzieri del vecchio partito e per garantire la proprietà giuridica del simbolo e del nome. Il progetto, che ha preso veramente corpo solo negli ultimi mesi, potrebbe diventare l’asso nella manica del presidente della Camera. A guardia del fortino, infatti, benché negli organismi di controllo siano rappresentate più o meno tutte le ex correnti di An, ci sono fedelissimi di Fini già entrati a far parte dei nuovi gruppi parlamentari Futuro e Libertà.

Le chiavi della cassa
Le chiavi della cassaforte sono in mano a Franco Pontone, tesoriere del vecchio partito, e a Donato Lamorte, storico capo della segreteria politica di Fini ai tempi dell’Msi ed ora amministratore unico delle tre società Italimmobili srl, Immobiliare Nuova Mancini srl e Isva che gestiscono tutto il patrimonio immobiliare di An.
Le varie società sono destinate a confluire nella nuova Fondazione (che dovrà darsi uno statuto entro il 2011), tra i cui garanti, oltre al presidente Lamorte, ci sono due finiani doc come il senatore Egidio Digilio e il deputato Enzo Raisi (amministratore del Secolo d’Italia). Mentre la gestione amministrativa dell’associazione An, il veicolo per arrivare alla Fondazione, è nelle mani fidate di Pontone.

Assalto al Secolo
Qualche settimana fa, prevedendo la bufera, gli ex An non legati al presidente della Camera hanno iniziato a puntare i piedi. Durante l’assemblea per l’approvazione del bilancio 2009 sono infatti fioccate le contestazioni alla gestione economica dell’associazione. Critiche rivolte principalmente agli anticipi concessi dal partito al Secolo d’Italia (gestito da una srl, ma controllato da An attraverso una quota di partecipazione del 97%, pari a 87mila 300 euro di capitale sociale nominale), quotidiano diretto da un’altra fedelissima di Fini come Flavia Perina. A guidare l’assalto, secondo ricostruzioni fatte dalla stessa Perina, sarebbero stato i senatori “larussiani” Antonino Caruso e Pierfrancesco Gamba e Roberto Petri (capo della segreteria politica del ministro della Difesa), anche loro nel comitato dei garanti della Fondazione accanto a Francesco Biava e Maurizio Leo (area Alemanno) e Giuseppe Valentino. Alla fine gli uomini di Ignazio La Russa sarebbero riusciti ad ottenere un tetto all’autonomia di Pontone (che nel 2009 ha portato il bilancio in utile di 38,5 milioni) e un controllo preventivo su tutta la gestione.
Con l’esplosione del caso Montecarlo (l’appartamento l’asciato in eredità al partito dalla contessa Anna Maria Colleoni nel 1999 e ora utilizzato dal fratello della compagna di Fini, Giancarlo Tulliani, attraverso una società off-shore) e lo strappo di questi giorni, le truppe degli ex colonnelli starebbero meditando misure ancora più drastiche, come quella di affidare ad una società di certificazione di bilanci la valutazione della sana e corretta gestione degli attivi patrimoniali.

La mossa di Fini
Nel frattempo, anche Fini sta muovendo le sue pedine. L’idea a cui stanno lavorando gli uomini del presidente della Camera è quella di legare la Fondazione al partito che dovrà nascere da Generazione Italia e dai gruppi parlamentari Futuro e Libertà.
Tutto ruoterebbe intorno alla possibilità di dimostrare legalmente che ci sia una continuità sostanziale tra il nuovo partito e il vecchio. Una tesi il cui argomento forte è chiaramente la presenza dello stesso leader (Fini era presidente di An e lo sarà della nuova creatura politica) e di una parte della stessa classe dirigente.
Molto più semplice, per adesso, sarà portare a casa le spettanze dei due nuovi gruppi parlamentari per le quali non servono battaglie legali né manovre societarie. Basterà presentare il conto agli uffici di Camera e Senato.

La dote dei gruppi
Secondo i calcoli effettuati da Italia Oggi si tratta complessivamente di circa 2 milioni di euro. A Palazzo Madama la dote che i finiani si portano dietro è così suddivisa: 40mila euro sono i fondi per le attività parlamentari dei dieci senatori a cui si aggiungono due contributi di 76mila euro l’uno per i servizi di supporto e 5 contributi sempre da 76mila euro per il personale. In tutto circa mezzo milione di euro.
Si arriva invece a quasi un milione e mezzo per Montecitorio. Calcolando quanto prende complessivamente il gruppo del Pdl e dividendo la somma per ognuno dei deputati si scopre che ogni onorevole costa qualcosa come 43mila euro.
Soldi che vanno quindi moltiplicati per i 33 deputati che andranno a formare il nuovo gruppo di Futuro e Libertà. In tutto un milione e 419mila euro.

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