sabato 2 gennaio 2010

I nostri passaporti rischiano di essere made in China

Anche i passaporti saranno made in Cina. Può sembrare uno scherzo, ma è quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane, quando si chiuderanno le gare bandite dal Poligrafico dello Stato per la fornitura dei microchip necessari al funzionamento dei documenti elettronici. La possibilità che la produzione del materiale ad alto contenuto tecnologico venga affidata ad aziende asiatiche è finita nel mirino dell’ex ministro della Funzione pubblica, Luigi Nicolais, che ha presentato un’interrogazione al Senato per chiedere lumi al ministro dell’Economia, azionista unico del Poligrafico.
Ma andiamo con ordine. La vicenda riguarda due appalti dal valore complessivo di 8 milioni e 75mila euro per la fornitura di un milione e 300mila “inlay”. Si tratta di prodotti semilavorati (antenna+microchip) che vengono incorporati nel passaporto per renderlo elettronico. La prima gara a procedura ristretta è partita lo scorso marzo. La seconda, con procedura negoziata, è invece scattata ai primi di agosto. In entrambi i casi l’unica azienda italiana a partecipare è stata la Gep, che produce gli inlay con propri brevetti negli stabilimenti di Arzano, vicino Napoli. L’azienda, fondata nel 1999 e controllata da Sequana Capital (gruppo Ifil) attraverso il colosso francese della carta per sicurezza Arjowiggins, si occupa da anni di documenti di riconoscimento con microchip incorporato. È dai suoi stabilimenti che uscito il primo prototipo di passaporto elettronico per il Poligrafico.
La Gep non ha però avuto successo. Nella prima gara è arrivata seconda. La migliore offerta è stata fatta dalla tedesca Siemens, che ha partecipato al bando insieme ad altre società straniere. La HID Global, che produce in Germania e in Irlanda; la Smartrac, con sede in Olanda e produzione in Tailandia, la IRIS Co. Berhad che ha sede e produce in Malesia.
La Siemens ha presentato il prezzo più basso anche nella seconda gara a procedura negoziata. In questo caso la Gep è stata superata pure dalla Gemalto, multinazionali francesi. Il problema nasce dal fatto che entrambe le aziende acquisterebbero gli inlay da produttori cinesi. Questo significa che la fornitura avrebbe origine in stabilimenti che non sono soggetti alle normative internazionali in materia di certificazioni sulla sicurezza, sul rispetto dell’ambiente e sui diritti dei lavoratori. In altri termini, c’è il rischio che possa configurarsi un caso di “dumping sociale” da parte di un’azienda controllata dal Tesoro. Non solo. Come spiega Nicolais nell’interrogazione, dai chip in questione dipende il «corretto funzionamento per i passaporti elettronici da cui derivano esigenze di sicurezza nazionale». Il tutto per risparmiare pochi centesimi di euro per ogni inlay.
La questione è delicata. E lo è particolarmente per il Poligrafico, che proprio sugli appalti per i documenti elettronici è già stata bacchetta poco più di un anno fa dalla authority sui contratti pubblici. Dopo un’istruttoria durata diversi mesi, nel maggio del 2008 l’organismo di controllo ha infatti bocciato un pacchetto di gare per passaporto e permesso di soggiorno elettronici dal valore complessivo di 150 milioni. In questo caso, secondo Nicolais, il problema sarebbe che per le gare il Poligrafico ha «deciso di optare per il criterio di aggiudicazione secondo il prezzo più basso e non per l’offerta economicamente più vantaggiosa». Nulla comunque è ancora chiuso. Anzi. È nel pieno diritto del Poligrafico annullare la gara anche ad aggiudicazione avvenuta. Soprattutto se la società dovesse ritenere di trovarsi di fronte a fenomeni di “ribasso anomalo”.

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